Judy e le altre: la personale di Chicago al New Museum è un inno alle donne

Il fucsia carico dei capelli ha lasciato il posto al bianco, ma non per questo appare addomesticata Judy Chicago, classe 1939, con gli occhiali blu carico, il rossetto viola, grandi orecchini a cerchio e una felpa oversize a colori psichedelici. Indomabile da sempre, da quando ragazza rifiutava il suo cognome – Cohen – si vestiva da uomo e fumava il sigaro, ha voluto per la sua nuova personale Herstory (al New Museum di New York fino al 14 gennaio) un andamento inclusivo e corale, proprio come sempre lo è stata la sua arte. Oltre ai tre piani dedicati alla sterminata carriera di artista femminista, infatti, il quarto piano dell’edificio – un cubo gigantesco alto più di otto metri – conterrà quella che è stata chiamata la City of Ladies: una raccolta di opere, documenti, oggetti e testimonianze di novanta donne vissute dal medioevo fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, figure alle quali Cohen si sente legata o che hanno ispirato il suo lavoro. 

Non solo Frida Kahlo, Leonora Carrington, Remedios Varo, Virginia Woolf o Anaïs Nin, ma anche Artemisia Gentileschi, con un autoritratto proveniente dagli Uffizi, e una chicca per intenditori come il codice miniato della mistica e teologa Ildegarda di Bingen. E poi tutta l’arte preziosa che esce ogni giorno dalle mani delle donne, come le terrecotte indigene o le coperte ricamate dalle native americane. Del resto Chicago mette in discussione da sempre la gerarchia delle arti, fin da quando nei primi anni Settanta fonda con la collega Miriam Shapiro la Womanhouse con laboratori di falegnameria, ricamo e ceramica. Sarà proprio da lì, da quella fucina di creatività, che raccoglierà collaboratrici per il suo capolavoro, The Dinner Party, con cui nel 1979 scandalizzerà il mondo dell’arte, apparecchiando tre tavolate dedicate alle grandi donne del mondo con piatti a forma di vagina (chi volesse vedere quei trentanove coperti per trentanove figure nodali della cultura femminile, le tovagliette ricamate, i piatti tutti diversi che incarnano, nelle volute del sesso stilizzato, un carattere, dovrà attraversare l’East River e fare un salto al Brooklyn Museum).

Un’arte corale, come dicevamo, dove l’autorialità – concetto prettamente maschile – è costantemente contraddetta dalla voglia di sorellanza e collaborazione. Far crescere una generazione di donne nuove, intraprendenti e coraggiose è la prima missione di Chicago, che quando è chiamata a insegnare arte all’università di Fresno, in California – e fa piazza pulita di tutte le opere realizzate da artisti uomini, cancella dal programma i testi scritti da uomini e inventa il primo Corso di Arte Femminista – non si limita a instillare nozioni nelle teste delle sue allieve, ma lavora sul loro carattere, esortandole e guardare l’interlocutore negli occhi e a tirare fuori la voce, fino a trasformare un gruppo di timide fanciulle in un manipolo di valchirie che nella primavera del 1971 vanno ad accogliere l’attivista femminista Ti-Grace Atkinson all’aeroporto di Fresno con una performance in cui – vestite da cheerleaders – gridano la parola “cunt” (che non è “vagina”, no, ma proprio “fica”), ribaltando uno dei più radicati tabù linguistici. Piccole femministe che crescono e artiste che lavorano insieme. 

Chicagos Driving the World to Destruction 1985 at the New Museum Inspired by Renaissance works the exaggeratedly muscular figure upends the tradition of the heroic male nudeCreditJudy ChicagoArtists Rights Society ARS New York Photo by Clark Hodgin for The New York Times

Per il Dinner party, come abbiamo detto, ma anche per le installazioni più urticanti, come la Menstruation Room (nata per abbattere un altro dei grandi tabù sul femminile): una stanza da bagno creata con le colleghe della Womenhouse dominata da un grande bidone traboccante di assorbenti usati. E a più mani nasce anche la performance sullo stupro Ablutions, firmata da Chicago con le colleghe Suzanne Lacy, Sandra Orgel e Aviva Rahmani. In una stanza il cui pavimento è cosparso da gusci d’uovo, interiora e corde, donne nude si immergono in vasche riempite con tuorli, sangue animale e argilla. Si legano con le corde, si liberano, e intanto, da un altoparlante, si sentono voci di reali vittime che raccontano le violenze subite. 

Quando nel 1979 al Moma si alza il sipario su The dinner party (un successo strepitoso da 100mila visitatori), l’opera è un detonatore per la carriera di Chicago, ma ha anche un po’ l’effetto boomerang della Colazione in pelliccia di Oppenheim: mettere in ombra tutto il resto. Eppure Chicago dopo fa molto ancora. Da The Birth Project – pittura e ricamo dedicati alla gravidanza e ai suoi lati oscuri – a Powerplay, dove indaga il lato violento dell’educazione maschile. Poi, insieme al marito, il fotografo Donald Woodman, realizza The Holocaust Project: from Darkness into Light e The End: a Meditation on Death and Extinction, sullo sfruttamento del pianeta. Una creatività sempre in dialogo, sempre in confronto.

City of Ladies a show within a show puts Chicagos bronze female figures banners and triptych collage alongside a sisterhood of more than 80 inspirations including Florine Stettheimer Leonora Carrington and Christine de PisanCreditJudy ChicagoArtists Rights Society ARS New York Photo by Clark Hodgin for The New York Times

Massimiliano Gioni, curatore di Herstory e direttore artistico del New Museum, nelle interviste parla di una mostra “introspettiva”, che indaga non solo l’opera ma anche l’universo creativo dell’artista. Ma anche, viene da dire, che risuona nel profondo dello spettatore. Con due guerre in corso, all’indomani della giornata internazionale contro i femminicidi, tra bilanci e conteggi, salta all’occhio l’attualità di uno dei grandi manifesti ricamati che troneggiano in mostra: “E se le donne governassero il mondo”?

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