Questa estate l’artista Luigi Presicce aveva pubblicato su Artribune una invettiva intitolata “Ci sarà mai un pittore italiano al Padiglione Italia della Biennale?” e proseguiva affermando che la pittura, discriminata negli anni Novanta, riscoperta dal mercato, dai musei e dai curatori negli ultimi tempi, è come una Fenice che risorge sempre dalle ceneri.
Se alla 60° Biennale di Venezia ancora una volta non esporrà un pittore (è recente la notizia che l’artista prescelto per il Padiglione Italia sarà Massimo Bartolini), alla pittura italiana è finalmente dedicata una grande mostra intitolata Pittura italiana oggi presso una delle più importanti sedi espositive italiane, la Triennale di Milano.
Abbiamo intervistato l’ideatore del progetto Damiano Gullì, curatore per l’arte contemporanea e il public program di Triennale Milano, che ci ha raccontato genesi e suggestioni di questa esposizione che rimarrà in corso fino all’11 febbraio 2024.
Dove scaturisce questo tuo interesse nei confronti della pittura italiana?
Coltivo da tempo un’attenzione per la pittura italiana, che da un lato fa parte del mio percorso di studi d’arte contemporanea e dall’altro è generata da incontri professionali che mi hanno fatto scoprire un mondo molto interessante e affascinante, che ho voluto approfondire in questi anni attraverso una rubrica su Artribune intitolata “Pittura lingua viva”, per cui ho intervistato più di 100 artisti. Quella attività è stata solo una piccola parte rispetto a quella che sarebbe stata poi l’evoluzione di questo progetto, che a un certo punto si è trasformato in disegno espositivo. Negli anni c’è stata una sedimentazione molto ampia fatta di incontri, studio visit, ricerche, mostre, cataloghi. Questo è l’humus che ha costituito il percorso ideativo di Pittura italiana oggi.
La mostra si articola in un percorso in cui sono esposte 120 opere di artisti e artiste di diverse generazioni nati/e tra il 1960 e il 2000. Come è stata effettuata la selezione?
È un panorama talmente ampio, talmente ricco che inevitabilmente mi rendo conto anch’io che ci sono state delle esclusioni, delle mancanze. Sono arrivato a formalizzare 120 artisti in base alle capacità espressive e alle qualità di contenuto e tecnica, ma anche legandomi alla narrazione che volevo esprimere. Oggi non ci sono scuole e movimenti, quindi è difficile individuare dei macro-gruppi o delle categorie. Un espediente di grande aiuto è stato il concentrarsi sugli ultimi tre anni di attività, dal 2020 al 2023, e questo dà effettivamente uno spaccato della pittura d’oggi, con tutte le sue idiosincrasie e contraddizioni, ma al contempo, sottotraccia, emergono dei temi comuni, non urlati, non dichiarati apertamente. Questi tre anni, con le eccezionali trasformazioni, i grandi stravolgimenti e le tragedie che abbiamo vissuto – dalla pandemia alle guerre –, ma anche con tutto il dibattito sulla proliferazione e saturazione di immagini tramite i social networks, e con la perdita di autorialità data dal sopravvento dell’Intelligenza Artificiale, hanno messo in crisi il concetto di fare un’opera, hanno generato la domanda sulle capacità di incidere sull’oggi da parte di un linguaggio così antico come la pittura.
Dunque quali sono i temi sottotraccia che emergono nella mostra?
Sono inevitabilmente delle tematiche che parlano di noi, dei nostri corpi, delle nostre fragilità, del desiderio di costruire nuove intimità. Parlano di desiderio, di eros, di frustrazione, di disillusione. Parlano di corpi che a volte sono pluri-identitari, senza identità, ibridi, corpi che si misurano anche con l’animale, il vegetale, il minerale perché si va in direzione di uno spostamento di sguardo da quello meramente antropocentrico e ci raccontano di una comune “interspecie”. La cosa che mi ha colpito profondamente è che ci sono molti animali, ci sono figure metamorfiche che attingono al mito, le sirene per esempio o le donne-paguro ibride.
Pittura italiana oggi è una mostra che parla dei generi (figura, paesaggio, natura morta), che sono sempre esistenti ma ora sono stravolti e reinventati, riaffrontati e risemantizzati, forse con ironia o polemica. È una mostra che parla del mezzo, perché si vedono anche le tecniche, si parla di tempo, durata, sedimentazione.
Quindi, secondo te, la pittura italiana d’oggi è caratterizzata da temi più che da tendenze o correnti o gruppi?
Una cosa che rilevo, e che ha fatto da fil rouge anche nel pensare l’allestimento della mostra, è questo continuo spostarsi tra figurazione e astrazione, figurazione in molti casi perseguita in maniera netta e definita, così come anche nel caso dell’astrazione. In tanti casi, soprattutto nelle generazioni più giovani, si assiste a una porosità, a una fusione, a una confusione, tra questi due poli espressivi. C’è oggi molta più naturalezza, fluidità e disinvoltura nell’affrontare il mestiere.
Se pensiamo al continuo flusso di immagini a cui siamo continuamente sottoposti, anche semplicemente quello che passa sul telefono (le gallery, le stories), questo continuo bombardamento visivo ci permette di individuare soggetti e temi in maniera fluida, non gerarchizzata, senza superficialità, ma con tanto discernimento e approfondimento successivo. Per cui si ritrovano pittori, anche molto giovani, che ben conoscono le fonti e i riferimenti storici. Se citano Piero della Francesca o Paolo Uccello lo fanno con la consapevolezza di fare una operazione che parla anche di quello. Penso per esempio a Ismaele Nones ma anche Jem Perucchini, che sul concetto di blackness innesca poi anche tutta la sua storia, il suo vissuto personale, senza la rivendicazione di uno spazio, ma semplicemente come istanza nel momento in cui dipinge.
Il progetto di allestimento dello Studio Italo Rota mi ricorda le pagine di un libro che possiamo sfogliare in maniera libera e personale, senza uno sviluppo consequenziale o cronologico. Qual è il pensiero che si cela dietro a questo percorso di mostra?
È un percorso che io definisco un “gioco combinatorio”, perché volutamente assieme ad Italo Rota abbiamo creato una grande fluidità anche nell’allestimento, sempre tenendo conto di questo scivolare dal figurativo all’astratto, con associazioni libere che richiamano criteri formali o di soggetto, ma anche con accostamenti spiazzanti e inaspettati, con anticipazioni e poi ritrovamenti. È poi importante la sostenibilità dell’allestimento stesso, realizzato con pannelli ricavati da legni di riuso, secondo una filiera 100% sostenibile. Volutamente non ci sono materiali di finitura, come colle o vernici che vanno ad appesantire, tutto va nella direzione di una riduzione massima di emissioni CO2.
Quali sono i tuoi riferimenti storico-critici e bibliografici nel passato?
Riconosco che ci sono stati tanti critici e curatori italiani che hanno lavorato in direzione di una valorizzazione della pittura, penso per esempio a figure come Maurizio Sciaccaluga e poi Alessandro Riva con la mostra Sui Generis del 2000 al PAC che recuperava e attraversava i generi della pittura, ma anche tu, Chiara, con il progetto de La Nuova Figurazione italiana del 2007 a Fabbrica Borroni. C’è un critico come Davide Ferri (che ho anche chiamato a scrivere nel catalogo della mostra) che ha sempre portato avanti con grande attenzione questi temi.
Trovo che ci sia tutto un filone critico che negli anni si è dedicato con coerenza e costanza allo studio della pittura, che credo sia importante ricordare perché è una attestazione di validità di ricerche che vanno al di là di specifiche mode temporali. Anche la mia scelta di lavorare sulla scena italiana non è per campanilismo, ma come accade spesso all’estero, ho ritenuto importante che una istituzione italiana valorizzasse e promuovesse le specificità del proprio paese.
Per approfondire…
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Pittura lingua viva: sulla mostra in Triennale
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Pittura italiana oggi
A cura di Damiano Gullì
Honorary Board: Francesco Bonami, Suzanne Hudson, Hans Ulrich Obrist
Progetto di allestimento: Studio Italo Rota
25 ottobre 2023 – 11 febbraio 2024