La stanza accanto e la ribellione di Almodóvar

In una delle scene più emotive e toccanti del film “La stanza accanto”, prima pellicola in lingua inglese diretta da Pedro Almodóvar, Julianne Moore pronuncia una battuta che risuona come un grido di ribellione contro l’inevitabilità della morte: “Non riesco ad accettare l’idea che qualcosa che è vivo non lo sia più”. Questa frase sembra condensare l’anima stessa del film, che affronta con toccante delicatezza il tema della fine, un argomento che il regista spagnolo ha già esplorato nei suoi recenti lavori. 

Ne “La stanza accanto”, pellicola che è valsa il Leone d’oro a Venezia81, il tema diventa ancora più centrale attraverso Martha (interpretata da Tilda Swinton), una reporter di guerra gravemente malata di cancro. Durante il suo ricovero, riceve la visita di Ingrid (Julianne Moore), amica di vecchia data e scrittrice di successo, con cui aveva perso i contatti. Questo incontro diventa l’occasione per rivivere i momenti più intensi della loro amicizia e, soprattutto, per esplorare la vita di Martha, segnata dalla sofferenza e dalla frattura con la figlia. Colta da una consapevolezza sempre più profonda della sua imminente dipartita, Martha chiede a Ingrid di accompagnarla in un’isolata villa, dove ha deciso di trascorrere i suoi ultimi giorni, scegliendo l‘eutanasia come atto finale di autodeterminazione.

Almodóvar, con la sua maestria unica, tesse una trama sottile tra vita e morte e tra due donne legate da un affetto profondo, ma separate da un abisso emotivo. In un primo momento, sembra quasi che il regista abbandoni il suo stile inconfondibile, adottando un approccio più sobrio e rigoroso, perfettamente calibrato per le sue protagoniste. Tuttavia, è solo una breve illusione: la pellicola si scioglie presto nel familiare universo almodovariano, un luogo in cui la politica e il privato si intrecciano inestricabilmente, e le storie si trasformano in specchi della realtà che le ha generate.

Dopo l’intimo e autoreferenziale Dolor y gloria, Almodóvar torna a confrontarsi con la fine della vita in un’opera che mescola riferimenti colti al cinema e alla letteratura con una narrazione profondamente personale. La sua è una storia intrisa di passioni proibite, di maternità imperfette e di vite devastate, dove persino la guerra e il cambiamento climatico si insinuano, come dimostra la scena di una malinconica nevicata su New York. Ogni elemento della vita viene frammentato e rielaborato, fino a essere superato dall’inevitabilità di una lunga, dolorosa fine.

Non tutto fila perfettamente in questa odissea cinematografica, e il personaggio interpretato da John Turturro appare come un punto debole nella struttura narrativa. Ma anche quando inciampa, il cinema di Almodóvar riesce a elevarsi, trasformando persino il tema della morte in un momento di struggente bellezza e speranza. È difficile non essere toccati dagli sguardi pieni di angoscia di Ingrid, che trasforma ogni gesto quotidiano – una porta chiusa, un breve sonno – in presagi di una fine imminente. E, al contempo, è impossibile non perdersi nella quieta accettazione di Martha, che accoglie la morte con una serenità quasi ultraterrena, immersa nell’eleganza visiva dello sguardo di Almodóvar. 

In questo film, la morte non è solo una conclusione; è una riflessione sulla dignità umana, sui diritti civili e sulle battaglie ancora da combattere. E mentre Almodóvar ci conduce per mano verso l’inevitabile, si concede un’ultima, giocosa strizzatina d’occhio al pubblico, trasformando l’esperienza cinematografica in un atto di resistenza estetica e simbolica. Tilda Swinton, con la sua capacità camaleontica, incarna questo gioco con una delicatezza che sfiora il sublime.

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