Prima di tutto, alzare il mento e lo sguardo: tutt’intorno ci circonda la bellezza seicentesca del Palazzo Ducale di Sassuolo, uno spazio tutt’altro che neutro. Questa preziosa location si intreccia al tema sviluppato dagli scatti di Gianni Berengo Gardin e partecipa alla narrazione di una storia lunghissima, che riguarda la tradizione della ceramica.
A 50 anni dal brevetto della monocottura rapida di Marazzi, azienda italiana leader nel settore della produzione di piastrelle per pavimenti e rivestimenti in ceramica, la mostra “Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci” presenta una selezione di scatti realizzati dal fotografo nel 1977: a essere evocato è il momento rivoluzionario in cui l’industria della ceramica, a partire dal 1974, conosce un’innovazione tecnologica destinata a cambiare per sempre il mercato. Negli anni del boom dopo la seconda guerra mondiale, infatti, si cercano nuovi metodi e tecniche. In quel momento storico la richiesta è altissima e l’area di Sassuolo viene conosciuta in tutto il mondo.
Il brevetto della monocottura rapida, depositato dall’azienda, introduce una soluzione fondamentale per la produzione, ovvero l’idea di smaltare i supporti in argilla cruda per poi cuocerli ottenendo il prodotto finale, ovvero la piastrella, in un unico passaggio. Grazie alle ricerche dei chimici e delle squadre di tecnici si inaugura un nuovo metodo; negli anni del dopoguerra vengono sostituiti i forni di un tempo, si studiano differenti materiali e tecnologie. Ciò che riprende Gianni Berengo Gardin nei suoi scatti è la fotografia di un materiale, ma anche di un tempo, oggi diventato una pagina di Storia.
Gianni Berengo Gardin nasce nel 1930 a Santa Margherita Ligure e documenta gli anni della ricostruzione dal dopoguerra fino a oggi. Quando viene chiamato per il progetto Marazzi, abbandona il bianco e nero per il colore. “Mi fu chiaro subito” leggiamo nelle sue parole “come la sfida professionale fosse quella di riuscire a cogliere il flusso veloce dei colori, la scia dinamica delle forme. Il colore, che ho usato sempre poco, si imponeva, quindi, come scelta”.
L’innovazione tecnologica della monocottura rapida era stata dettata da una ricerca che desiderava diminuire i costi, migliorare le tecniche e la qualità, nonché aumentare la velocità di produzione, necessità data da una richiesta altissima. Siamo negli anni Settanta, tutto sembra possibile: la guerra è una pagina di ieri, il futuro sembra attrarre magneticamente tutto. Ecco perché ciò che si nasconde dietro alla fotografia di Berengo Gardin è anche l’avventura di una sperimentazione, la storia delle persone che l’hanno vissuta e il ritratto di un Paese intero, l’Italia degli anni Settanta, dell’industria e di chi l’ha vissuta.
Fino agli anni Ottanta Sassuolo e il distretto di Modena resteranno il luogo da cui proviene gran parte della produzione nazionale, ma in realtà la storia della ceramica in queste zone ha una storia antichissima. Già Plinio il Vecchio cita l’area di Modena e dintorni per la produzione di manufatti a causa della presenza di argilla che caratterizza queste terre. A Sassuolo nel 1976 si raggiunse il record nel numero di aziende e persone occupate. La ricerca di nuove linee e decorazione diventerà presto un’ulteriore necessità, e durante gli anni Sessanta, Marazzi inaugura le serie di piastrelle disegnate da grandi personalità, come Rabanne, ispirazione che ritornerà in seguito nelle collaborazioni con stilisti e artisti.
La piastrella diventa narrazione di una geografia, frammento della storia del mondo capace di raccontare luoghi e persone. Il nastro trasportatore ripreso dagli scatti di Berengo è forse quello della memoria e allora accade di emozionarsi davanti a una fotografia il cui senso arriva lentamente, strato dopo strato. Come spiega l’autore, l’approccio a questo progetto fotografico voleva essere un avvicinamento intenzionale, fino all’obiettivo – ardito ma in linea con l’essenza del periodo – di cogliere l’essenzialità delle linee e scinderle dal legame con il processo produttivo. Da una parte c’è la fotografia industriale, dall’altra il racconto che diventa astratto e trasforma la materia in una porta che lascia accedere al colore e alla forma come fosse il flusso di una danza magnetica.
La fabbrica: dietro tutto questo c’è anche lei. La fabbrica con i suoi ritmi, i macchinari che incutono sempre un po’ di timore e rispetto; la fabbrica con i suoi camici, le persone che ne fanno parte e il tran tran lavorativo di un mondo che si è drasticamente trasformato. A emergere è un tempo oggi inesorabilmente trascorso e questo inevitabilmente segna un altro viaggio, un’ulteriore incisione nel corpo della fotografia: dentro l’obiettivo ci sono i padri e le madri, i nonni e le nonne che hanno vissuto sulla pelle queste professioni.
Tuttavia, a fare da contrasto allo scorrere del tempo c’è la presenza imponente e piena di pace di Palazzo Ducale. Come spesso accade, emerge la magia di un tempo trascorso che nonostante tutto sopravvive e ci sopravvive, la stessa fascinazione che in fondo ritroviamo in questi manufatti: è la fotografia di un’epoca, della passione e del lavoro, dell’impegno e delle forme che sa prendere la bellezza, essenziale e rivoluzionaria come una linea capace di uscire dallo schema imposto per prendere nuove strade e osare.