A tutti, o quasi, è capitato di sentire il commento spontaneo e un po’ ingenuo “Che bella foto, sembra un quadro”, magari di fronte a un maestoso paesaggio di Ansel Adams o un’opera di Erwin Olaf. La ragione è piuttosto semplice: la fotografia, fin dalla sua nascita e per molti decenni a seguire, si appoggia fortemente alla pittura, replicandone stilemi e composizioni. Le prime immagini fotografiche riflettono l’estetica pittorica, non solo nelle pose e nelle luci, ma anche nei costumi e nella moda dei soggetti (basta osservare Julia Margaret Cameron con le sue atmosfere mistiche e teatrali che richiamano la pittura preraffaellita, o le pose dei soggetti ritratti da Nadar).
È con l’arrivo del XX secolo che si comincia a teorizzare in maniera profonda e ragionata attorno alla fotografia, con Alfred Stieglitz che si fa promotore del pittorialismo e definisce una nuova maniera di osservare, con il suo movimento culturale che mira a elevare la fotografia da strumento a linguaggio artistico, e si oppone all’idea che si tratti solo di un mezzo tecnico per riprodurre la realtà. Ovviamente la traduzione dalla teoria alla pratica non è immediata e richiede tempo, ma già alcuni fotografi operanti tra gli anni Venti e Trenta come Adolph de Meyer e Cecil Beaton ampliano questo dialogo tra fotografia e pittura, soprattutto nel contesto della moda.

Le immagini di George Hoyningen-Huene (attualmente c’è una sua bellissima mostra a Palazzo Reale di Milano) e Horst P. Horst evidenziano forti influenze del neoclassicismo e del surrealismo, avvicinando ancora di più la fotografia alla sua sfera artistica indipendente. Oggi, a quasi duecento anni dalla prima fotografia scattata da Joseph Nicéphore Nièpce (1826), possiamo sostenere con buone ragioni che questa espressione visiva è riconosciuta come linguaggio artistico a tutti gli effetti, e si presta facilmente al dialogo con altri media e arti visive, ma senza dipenderne. Ci è voluto tempo, ma alla fine la fotografia l’ha avuta vinta, consolidando un’identità propria fatta di estetica, tecnica e pensiero che la definiscono chiaramente.
Eppure, se osserviamo la recente evoluzione dell’Intelligenza Artificiale generativa nel campo dell’arte visiva, non possiamo fare altro che notare un processo analogo a quello vissuto dalla fotografia nei confronti della pittura. Le prime creazioni generate dall’AI, ormai risalenti a qualche anno fa, appaiono goffe, ridicole, spesso caratterizzate da dettagli sbagliati: mani deformi con sei o quattro dita, corpi distorti, proporzioni incoerenti o espressioni visive grottesche. Ma, proprio come la fotografia nel XIX secolo, l’AI sembra volere iniziare il suo percorso imitando un linguaggio consolidato, una base sicura dalla quale provare a individuare i tratti salienti, per restituirli sotto una nuova prospettiva. Col tempo, questi difetti si attenuano. Le immagini generate da AI diventano via via più raffinate, anche perché iniziano a essere arricchite di una progettualità e di una coerenza estetica sempre maggiori da parte degli artisti che ne fanno uso.

Le imperfezioni iniziali lasciano spazio a opere che cominciano ad assumere un valore, perché capaci di suscitare emozioni e riflessioni, tanto che istituzioni come il Getty Museum di Los Angeles iniziano ad acquisire opere realizzate tramite AI generativa, riconoscendone il potenziale artistico. Ecco la consacrazione definitiva: le opere generate da AI entrano nei musei di arte contemporanea, in barba a tutti quei luddisti contemporanei che si mettono di traverso a questo grande cambiamento dei paradigmi visivi. Oggi il dibattito si concentra su una questione un po’ stucchevole, per cercare di rispondere a una domanda: come definire queste immagini? Sono fotografie? O sono qualcos’altro?
La questione, oltre a essere molto poco interessante, ricorda le perplessità dei primi osservatori delle fotografie ottocentesche, che spesso le consideravano semplici imitazioni pittoriche di scarso valore. Baudelaire – Charles Baudelaire in persona, non l’avventore stralunato del bar di quartiere – addirittura definisce la fotografia “Il rifugio di ogni pittore fallito” (Le Public Moderne et la Photographie, 1859). Eppure, con il tempo, nessuno ha più messo in dubbio che quelle prime immagini fossero fotografie e che fossero il prodromo per la costruzione di un linguaggio artistico a tutti gli effetti.
Allo stesso modo, si può ipotizzare che anche l’AI generativa stia seguendo un percorso analogo, almeno a livello concettuale. Cambiano le tecniche e cambiano canali e tempi di diffusione, ma con il passare degli anni le opere create da AI cominciano a essere considerate semplicemente immagini, o eventualmente anche pezzi d’arte, senza la necessità di specificarne l’origine tecnica o di doverle per forza associare alla fotografia. Del resto di post-fotografia si parla già dalla fine degli anni Ottanta, quindi non stiamo assistendo a niente di nuovo o di particolarmente scioccante. Quel che è certo è che questo processo di emancipazione creativa è in atto, e anche senza disporre di una sfera di cristallo è facile prevedere che porterà l’AI a sviluppare un linguaggio visivo autonomo, capace di dialogare con la tradizione ma anche di superarla, proprio come ha saputo fare la fotografia nei confronti della pittura.