“L’IA ha un’intensità emotiva perturbante”. Parola al digital artist Andrea Meregalli

Un elenco di sintomi. Parole fredde, asettiche, distaccate. Il linguaggio della medicina è fatto per classificare, per contenere il caos del corpo e della mente in definizioni precise. Ma cosa accade quando queste parole vengono “consegnate” a un’intelligenza artificiale e trasformate in immagini?

Con il progetto Effetti AI_ndesiderati, presentata dal 6 al 9 febbraio 2025 a Booming Contemporary Art Show di Bologna, l’artista Andrea Meregalli ha innescato un cortocircuito tra linguaggio medico e visione digitale, lasciando che un algoritmo interpretasse senza filtri un foglietto illustrativo di un farmaco antidepressivo. Il risultato è un immaginario perturbante, una serie di visioni che sembrano emergere da un sogno febbrile, tra distorsioni percettive, fragilità e incubo.

In bilico tra sperimentazione e riflessione critica sulla tecnologia, Meregalli non cerca risposte, ma apre interrogativi: l’IA può davvero restituire qualcosa di così profondamente umano come il dolore mentale? Siamo noi a infondere emotività nelle sue immagini, o è l’algoritmo stesso a rivelare qualcosa di inquietantemente familiare?

Le risposte ce le fornisce direttamente Andrea in questa intervista esclusiva…

-Effetti AI_ndesiderati mette in dialogo il linguaggio medico degli effetti collaterali di un farmaco antidepressivo con le immagini generate dall’intelligenza artificiale. Come è nata l’idea di “tradurre” un freddo testo clinico in una serie di visioni digitali così intense e perturbanti?

E’ semplice, assumo il farmaco in questione e un giorno, leggendo il foglietto illustrativo, mi è sembrato naturale provare a innescare un corto circuito testo/immagine utilizzando “impropriamente” il freddo elenco degli effetti collaterali come prompt senza apportare nessuna modifica, per vedere il risultato e analizzare le immagini, cercando di capire quali possibili meccanismi potevano averle generate.

Questo è da sempre il mio modus operandi: usare gli strumenti in modo improprio, spingerli all’errore, esplorare lo stupore che può nascere dall’imprevisto. Avevo già lavorato con il packaging del farmaco per costruire un libro d’artista – una forma espressiva che trovo bellissima, ne ho fatti più di cento – decostruendo forme grafiche e contenuti testuali, ma con l’IA è stato un processo diverso. 

Usando i software di text-to-image, ho applicato fin da subito il mio metodo, cercando di farli “deragliare” dal loro scopo principale: produrre immagini sensate e fedeli a un prompt il più possibile accurato. Ho trovato più interessante sperimentare con un uso volutamente errato di questa tecnologia, piuttosto che concentrarmi, per esempio, sul problema tecnico delle mani con sei o sette dita. Le immagini generate risultano effettivamente perturbanti, evocando nell’immaginario collettivo il mondo dell’incubo, dell’alterazione percettiva, segno di una profonda vulnerabilità.

Nel tuo lavoro l’IA trasforma un elenco di sintomi in immagini cariche di angoscia e tensione emotiva. Che relazione vedi tra la razionalità “asettica” di un algoritmo e la rappresentazione del dolore mentale, qualcosa di così profondamente umano e difficile da oggettivare?

L’intelligenza artificiale, pur essendo guidata da processi algoritmici rigorosi e apparentemente asettici, diventa qui uno strumento per esplorare il vissuto emotivo di chi sperimenta il dolore mentale. Questa relazione tra razionalità e sofferenza è carica di tensione: da un lato, l’IA opera senza emozioni, basandosi su istruzioni e dati; dall’altro, le immagini che genera rivelano un’intensità emotiva disturbante, quasi in contrasto con la sua natura tecnica.

È importante ricordare, semplificando brutalmente, che questi sistemi sono stati “allenati” su materiali visivi prodotti e categorizzati da esseri umani (non si sa ancora per quanto). La macchina, nel suo tentativo di rappresentare qualcosa che non può realmente comprendere, produce visioni che sfiorano il nostro inconscio, perturbante e irrazionale perchè lo ha imparato da noi. In un certo senso, è come se avesse sviluppato una relazione “empatica” tra testo e immagine, ma sempre mediata dall’uomo. 

Se avessi splittato l’elenco degli effetti indesiderati in richieste puntuali probabilmente avremmo ottenuto delle immagini descrittive, più didascaliche ma molto meno interessante dal mio punto di vista. L’aver richiesto all’IA di rappresentare l’elenco come un unico prompt ha innescato un meccanismo di interpretazione e poi selezione e sintesi da parte dell’IA che mi era completamente ignoto e sul quale non potevo intervenire. Non avevo la minima idea di cosa potesse emergere da un testo volutamente non strutturato come input.

Un aspetto che mi ha colpito nell’osservare le immagini che venivano generate, tralasciando l’estetica e l’impatto emotivo delle immagini, è che la maggior parte di esse veniva restituita in bianco e nero, senza che io avessi avanzato richieste in tal senso. Perché? Forse perché il dataset su cui è stata addestrata l’IA contiene un numero maggiore di immagini storiche legate alla psichiatria e al disagio mentale, risalenti a epoche in cui la documentazione visiva era prevalentemente monocromatica? O perché queste immagini sono più facilmente accessibili, prive di diritti o meno soggette a vincoli di privacy? Non ho risposte certe, ma queste domande mi sembrano interessanti per comprendere meglio il funzionamento dello strumento e decifrarne l’estetica.

In questo senso, il progetto mette in discussione l’idea stessa che il dolore mentale possa facilmente essere riprodotto a partire da un elenco di sintomi oggettivi. L’IA diventa una sorta di specchio distorto, che restituisce il lato invisibile di quelle parole cliniche, rendendole visibili in modi imprevedibili, tra suggestione, allucinazione e iperrealismo emotivo.

Il titolo dell’opera, Effetti IA_ndesiderati, suggerisce una riflessione sui possibili rischi e derive della tecnologia. Quali sono, secondo te, i “nuovi” effetti collaterali che l’intelligenza artificiale potrebbe avere sulla nostra percezione del corpo e della psiche?

Questa è una domanda complessa, alla quale non credo di poter rispondere con un’analisi specialistica, perché non ho conoscenze così approfondite, ma posso condividere il mio punto di vista. Ci tengo a sottolineare che il senso di questo lavoro non era dimostrare un’equazione semplicistica come “tecnologia = male assoluto”. Anzi, non c’era affatto l’idea di dimostrare qualcosa, ma piuttosto di indagare, porre domande, esplorare e conoscere meglio un nuovo strumento. 

Ritengo che una riflessione sui rischi e le derive della tecnologia sia necessaria, sempre e non solo per l’IA, ma deve essere informata, basata su indagine e studio, piuttosto che su allarmismi o entusiasmi acritici. Uno dei possibili effetti collaterali dell’IA – e più in generale delle tecnologie intelligenti – è un utilizzo poco consapevole, che può portare a una crescente esternalizzazione del pensiero e della memoria, un processo che è già in atto da molto tempo, ma che sta sempre diventando più veloce. Estremizzando molto, l’invenzione della scrittura ci ha permesso di “non ricordare”, delegando la memoria a un supporto esterno. Oggi non scriviamo più, fotografiamo tutto. La fotocamera del nostro smartphone è diventata il nostro taccuino: non scriviamo o appuntiamo, fotografiamo, trasferiamo a una memoria digitale che poi ci dimentichiamo di andare a rivedere (ma anche questa è una deriva 🙂 ), però molti materiali li condividiamo sui social, che poi vengono “draggati” e utilizzati per allenare un’IA e quindi ci ritornano.

In questo senso, l’IA potrebbe avere un impatto profondo sulla nostra percezione del corpo e della psiche, non solo attraverso la creazione di immagini sempre più verosimili, ma anche ridefinendo il confine tra realtà e rappresentazione. Potrebbe amplificare il nostro rapporto già complesso con l’autopercezione, portando a una maggiore idealizzazione o distorsione della nostra immagine. Lo stesso vale per il dolore psichico: se l’IA inizia a produrre rappresentazioni visive di emozioni e stati mentali, quanto di quelle immagini sarà un riflesso autentico e quanto invece una proiezione algoritmica basata su dati e convenzioni culturali preesistenti?

Ovviamente c’è dell’ironia in tutto questo, ma anche la consapevolezza che più la tecnologia evolve, più diventa necessario comprenderne il funzionamento e sviluppare un pensiero critico su come la utilizziamo.

Dal punto di vista concettuale, il tuo lavoro solleva questioni sulla follia nell’era delle macchine e sulla capacità dell’IA di rappresentare ciò che è considerato irrappresentabile. In che modo credi che l’intelligenza artificiale possa contribuire a indagare aspetti come il disagio esistenziale o l’alienazione?

Questa domanda tocca un punto cruciale: l’idea che l’intelligenza artificiale possa avvicinarsi alla rappresentazione di ciò che è tradizionalmente considerato irrappresentabile, come il disagio esistenziale o l’alienazione e che modo possa esserne strumento di indagine.

Credo che l’intelligenza artificiale possa contribuire a indagare il disagio esistenziale e l’alienazione in un modo paradossale: rappresentandoli senza comprenderli. Un algoritmo non prova angoscia, non si sente solo, non lotta con il senso di sé. Eppure, quando gli forniamo un input legato alla sofferenza, alla psiche, al malessere, la sua risposta visiva può risultare inquietantemente evocativa.

Questo significa che quando le chiediamo di visualizzare qualcosa di così sfuggente come la follia o il disagio psichico, il risultato è sempre una mediazione tra ciò che noi, come società, abbiamo codificato e ciò che l’algoritmo interpreta secondo i suoi modelli di apprendimento. Il risultato che ho ottenuto nel mio lavoro è stato un insieme di immagini perturbanti, che sembrano attingere a un immaginario dell’incubo e della distorsione percettiva. Questo solleva una questione affascinante: se l’IA può generare immagini così evocative di uno stato mentale alterato senza comprenderlo, allora significa che il nostro modo di rappresentare il disagio segue schemi ricorrenti e riconoscibili? O è semplicemente un’illusione di empatia generata dal nostro stesso sguardo?

Credo che l’intelligenza artificiale possa diventare uno strumento di indagine su questi temi proprio perché ci costringe a interrogarci sul modo in cui costruiamo e comunichiamo il concetto di sofferenza mentale. Ci restituisce un’immagine di questa sofferenza che è il risultato di un processo di rielaborazione automatica, eppure paradossalmente ci colpisce nel profondo, forse perché rispecchia paure e archetipi collettivi stratificati nel tempo.

L’alienazione, poi, è un tema che emerge anche nel nostro rapporto con la tecnologia stessa. Se l’IA inizia a generare immagini del nostro dolore mentale, cosa succede al nostro modo di percepirlo? Lo vediamo in modo più chiaro o rischiamo di affidarne la narrazione a una macchina? Forse non è l’IA a rappresentare la follia, ma siamo noi che, nel tentativo di tradurla in immagini attraverso un algoritmo, finiamo per svelare qualcosa di più su come la percepiamo e la definiamo culturalmente.

Nel contesto della tua ricerca artistica, come si inserisce questo progetto video rispetto ai temi che hai esplorato in precedenza, e quali nuove direzioni o sperimentazioni stai valutando per il futuro, soprattutto in relazione alla fusione tra arte e tecnologia?

Come dicevo prima questo progetto video si inserisce nel mio percorso artistico come un’estensione naturale di un metodo che ho sempre utilizzato: esplorare gli strumenti in modo improprio, cercando di portarli oltre il loro scopo originale per vedere cosa succede quando “sbagliano” o si allontanano dalla funzione per cui sono stati creati.

Un altro aspetto fondamentale nel mio lavoro è la continua rielaborazione dei dati, che possono essere digitali o fisici. I collage, i libri d’artista, e le rappresentazioni pittoriche sono tutte forme in cui la materia è costituita da altri lavorati: immagini prese dalla pubblicità, oggetti recuperati, frammenti di realtà che vengono mescolati, trasformati e restituiti in una nuova forma. La rielaborazione è una costante, sia nei lavori digitali che in quelli fisici, e credo che questa capacità di mescolare e riutilizzare sia una forma di resistenza alle categorie predefinite, un modo per creare nuovi significati.

Accanto a questo, c’è l’elemento dell’ironia, che nel mio lavoro spesso assume una forma anche cinica, soprattutto quando si tratta di tematiche complesse e delicate. Mi interessa utilizzare l’ironia come strumento per disinnescare la serietà di certi argomenti, per aprire uno spazio di riflessione che non sia soltanto emotivo, ma anche critico. Questo approccio permette di innescare un’interazione con il pubblico che non si limita alla mera osservazione, ma invita alla riflessione, spingendo chi guarda a porsi domande e a guardare oltre l’apparenza.

In ogni progetto, cerco di creare un dispositivo di relazione con il pubblico che vada oltre il mezzo stesso. Che sia una video-installazione, un libro d’artista o un’opera digitale, la mia intenzione è sempre quella di stabilire un ponte, di attivare una connessione che permetta al pubblico di sentirsi coinvolto in un processo, non solo in un prodotto finito. La fusione tra arte e tecnologia in questo progetto serve proprio a sottolineare questa ambiguità, in cui l’intento critico si intreccia con un uso ironico e distaccato degli strumenti.

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