Nel 2007, la scena artistica italiana, e soprattutto quella milanese, ha vissuto un momento significativo. Sotto la guida di Vittorio Sgarbi, all’epoca Assessore alla Cultura del Comune di Milano, furono nominati consulenti per l’arte contemporanea i due curatori Alessandro Riva e Maurizio Sciaccaluga. Insieme a Sgarbi organizzarono tre esposizioni istituzionali per promuovere l’arte italiana. La prima, intitolata “Arte italiana 1968 – 2007. Pittura”, si tenne Palazzo Reale; la seconda, curata da Riva, “Street Art, Sweet Art. Dalla cultura hip hop alla generazione pop up‘” si svolse al PAC. L’ultima, anch’essa al PAC e curata da Maurizio Sciaccaluga, “Nuovi pittori della realtà”, fu organizzata postuma dopo la prematura scomparsa del curatore. I due critici arrivavano da almeno un decennio di mostre e di significative battaglie in favore della nuova pittura italiana, che avevano condotto spesso in grande sintonia con altri due critici della loro stessa generazione: Luca Beatrice, attivo soprattutto a Torino, e Gianluca Marziani, che viveva a Roma. Quella che si era venuta a creare era una situazione generale che vedeva comuni sensibilità, con temi, rimandi e riflessioni spesso convergenti, con artisti che spesso si spostavano tra le mostre curate dall’uno e quelle organizzate dagli altri, con tematiche che spesso si incrociavano e rimandavano le une alle altre. Tanto per fare degli esempi: se Luca Beatrice, assieme a Cristiana Perrella, nel 1995 curava una mostra intitolata Estetica del delitto (da Sergio Tossi a Prato), Riva nel 1998 ne curava una dal titolo Cronache vere – artisti, scrittori e musicisti invischiati nel torbido mondo del crimine (Spazio Consolo, Milano); se nel 1999 Beatrice curava La vendetta dei pomodori assassini – la pittura nell’era del B-Movie, in quattro tappe tra Torino, Milano, Prato e Roma, Sciaccaluga sempre nel ’99 curava a Rivergaro (Piacenza) Essi vivono – un omaggio al cinema di fantascienza (preferibilmente B-movies), mentre Riva nel 2000 curava Sui Generis – Dal ritratto alla fantascienza, la ridefinizione del genere nella nuova arte italiana (Pac, Milano); e, se artisti come Matteo Basilé e Cristiano Pintaldi figuravano in molte delle mostre curate dagli altri curatori, a dar loro la prima investitura critica era stato, a Roma, Gianluca Marziani; e via così, di mostra in mostra e di rimando in rimando.
Trasferitami a Milano da pochi anni, e giovane critica al seguito dei miei mentori, decisi di non disperdere l’impegno dei “maggiori”, riassumendone e ampliandone l’impresa, per proporre un inventario esauriente dell’esistente (come affermò successivamente Sgarbi nella prefazione del catalogo). Ideai e organizzai così la mostra “La Nuova Figurazione Italiana – To Be Continued…” (dal 27 ottobre al 18 novembre 2007), che riuniva 140 artisti con circa 170 opere presso la Fabbrica Borroni di Bollate, spazio di archeologia industriale, trasformato dal collezionista Eugenio Borroni (scomparso nel 2019) in suggestivo hub per promuovere la giovane arte italiana.
Per ricostruire la scena e la storia recente della Nuova Figurazione Italiana, chiesi a Luca Beatrice di raccontarmi i suoi inizi a Torino e il suo interesse per la pittura italiana. Seduti a un tavolino esterno del Bar Brera, alla fine di una delle sue lezioni presso l’Accademia di Belle Arti, mi concesse questa intervista. Oggi, dopo la scomparsa di Beatrice, che della battaglia per sostenere e dare linfa e visibilità alla pittura italiana aveva fatto uno dei capisaldi della sua attività critica, come già scritto in queste pagine proprio da Riva (Addio a Luca Beatrice, eterno critico “militante”, che ha portato la pittura italiana nelle grandi mostre internazionali), riproponiamo l’intervista che mi aveva rilasciato quasi vent’anni fa come documento storico e valido ausilio per comprendere meglio la storia di uno dei critici che hanno segnato in maniera significativa gli ultimi tre decenni di storia dell’arte italiana, il suo interesse per i mille volti della pittura di casa nostra e la sensibilità in cui questo interesse è cresciuto e maturato. Ecco, qui di seguito, il testo di quell’intervista.
Come sono iniziate, a tuo avviso, le ricerche sulla Nuova Figurazione Italiana? Quali sono i presupposti e gli antefatti culturali che hanno portato alla nascita di una nuova arte che si confronta in primo luogo con le immagini e con la tradizione della pittura italiana?
Due premesse vanno fatte: la prima è personale. Ho cominciato a lavorare nel campo dell’arte alla fine degli anni Ottanta, il decennio della Trasavanguardia ma, nonostante ciò, a Torino questa corrente non ha mai attecchito in maniera profonda, come invece è avvenuto a Roma dove, in seguito, sono usciti la Nuova Scuola Romana di via degli Ausoni, gli Anacronisti, i Citazionisti.
A Torino invece continuava quest’Arte Povera di terza generazione, i giovani emergenti di quegli anni erano ex-allievi di Mainolfi, Zorio, Mario Merz, Gastini, in parte di Paolini, in continuità con un discorso consolidato negli anni. La seconda premessa: credo che questa figurazione molto contaminata, molto pop, sia nata per un bisogno, essendo l’unica forma d’arte che abbia veramente avuto una necessità esistenziale, perché anche a Milano verso la fine degli anni Ottanta, era in voga un’arte concettuale e leggera che trovò in Corrado Levi un personaggio carismatico a cui si sono aggregati una serie di artisti che utilizzavano mezzi diversi ma mai solamente pittorici, Arienti, Kaufmann, Martegani, Mazzucconi (mentre Cingolani faceva già una storia a sé), confluiti poi nella mostra La scena emergente al Museo Pecci di Prato.
Ma nell’ambito in cui tu operavi, Torino, quali sono stati i primi segni di rinascita della pittura figurativa?
Nella Torino di quegli anni ha preso vita tutta una serie di fenomeni tipo la galleria di Guido Carbone e la galleria In Arco diretta da Sergio Bertaccini, e un’altra serie di situazioni che promuovevano gli artisti figurativi, non per fatto strategico, ma in maniera spontanea. Mi ricordo che i primi artisti nostri coetanei a provocare un vero e proprio salto generazionale furono Bruno Zanichelli e Pier Luigi Pusole. Qualcosa di diverso stava dunque fermentando al di fuori dell’Arte Povera; diventò per me scontata e automatica la frequentazione abituale di giovani pittori, come Enrico De Paris, Sergio Cascavilla, Stefano Pisano, Victor Kastelic e Monica Carocci nella fotografia. E poi la scoperta reciproca con Daniele Galliano, che è forse stato il pittore più talentuoso di tutto il decennio. In quegli stessi mesi anche a Bologna c’era una scuola, legata in un certo senso alla Nuova Figurazione. Lì la galleria di riferimento era Loretta Cristoforis, e il cui fulcro era Gian Marco Montesano, con attorno una serie di personaggi “minori” come Luigi Mastrangelo, Gabriele Lamberti, Fabrizio Passerella, Antonella Mazzoni, Andrea Renzini.
In tutto ciò, onestamente, bisogna ricordare che prima di me, prima di Alessandro Riva, prima di Maurizio Sciaccaluga e anche prima di Gianluca Marziani, in qualche modo c’è stato il passaggio di Gabriele Perretta che proponeva il “medialismo” quale categoria teorica di una nuova pittura che nasceva dal concetto e univa personaggi di area post-concettuale (artisti che a Milano ruotavano attorno alla galleria del napoletano Paolo Vitolo: Fantin, Viel, Formento Sossella, Nello Teodori). Questa corrente fallì per conflitti interni e più probabilmente per non eccelsa qualità del progetto, dopo aver inaugurato con una mostra il Trevi Flash Art Museum nel 1993.
Tuttavia il “medialismo”, come movimento artistico ispirato alle immagini dei mass media, della televisione, della pubblicità non è forse che una piccola branca dalla cosiddetta “Nuova Figurazione”, quale istanza di ricerche molto diverse e lontane tra loro sia a livello tematico che stilistico, che dal riferimento ai mass media spaziano fino alla cronaca nera, passando attraverso il cinema, il fumetto, la letteratura, per arrivare al confronto diretto con la figura e il paesaggio, con i miti e i feticci quotidiani per esprimere una presa di coscienza individuale ed emotiva sulla realtà. Che cosa significa, secondo te, Nuova Figurazione Italiana?
La Nuova Figurazione parte da un discorso ben diverso, non è stato un gruppo, come quello del “medialismo”, ma è stata un’area di sensibilità che ha compreso all’interno di sé espressioni molto diverse, addirittura contrastanti, e ricordo che quando organizzai a Torino la mostra Dodici pittori italiani nel 1995, trovai non poche difficoltà perché alcuni artisti non volevano essere raggruppati con altri. La Nuova Figurazione come area di sensibilità dunque, che attraverso le mie ricerche e quelle di Riva, Sciaccaluga e poi Marziani, ha tentato di spezzare la tradizione nefasta e funesta legata al ’68 per cui nella cultura conta più l’appartenenza che non il merito. Quando c’era il “medialismo” bisognava fare gruppo, ed era sempre un discorso legato appunto all’appartenenza, mai al talento; noi, assieme ai galleristi e ai collezionisti che ci hanno creduto, abbiamo tentato di fare riferimento più al talento di un artista che alle sue relazioni sociali. In più si rilanciava una collocazione domestica, e dunque vivibile, della pittura, molto apprezzata dai collezionisti.
Quando nasce e prende forma questa sfera di sensibilità attorno alla Nuova Figurazione Italiana?
Sicuramente è una sensibilità che emerge attorno al 1994-95. Questo tipo di pittura figurativa, che è essenzialmente metropolitana, ha come suo teatro privilegiato la città. Non è un caso che il fenomeno della Nuova Figurazione è parallelo in letteratura a quello della “gioventù cannibale”, la vera avanguardia degli anni Novanta, e alla nascita nella musica di nuovi gruppi pop che scoprono la canzone di intrattenimento, rivestendola in qualche caso di angst generazionale: Marlene Kuntz, Subsonica, Mau Mau, Africa United. Tutta una serie di fenomeni che sono assolutamente italiani, di una generazione post-terrorismo, di cultura post-ideologica. Nel cinema invece il modello è esterno, si tratta di Pulp Fiction, che è stato il film cult degli anni Novanta, come esemplare testo di contaminazione.
A proposito di Nuova Figurazione, da una parte Riva si è sempre occupato della ri-definizione dei generi maggiori e minori dell’arte (dal paesaggio al ritratto, dalla cronaca alla fantascienza), mentre Sciaccaluga ha inaugurato una tendenza che si potrebbe intitolare come una sua mostra del 2001, “La linea dolce della nuova figurazione”, fondata sulla libertà, sull’ironia, sull’inventiva linguistica che si caratterizza come più nuova, fresca e leggera rispetto alle consuete aree semantiche di riferimento. Quali credi siano state le specificità critiche di ognuno di loro? E le tue naturalmente?
Mai come in questo caso, credo quello che loro hanno scritto, le scelte che hanno fatto e le teorie che sono riusciti a formulare assomigliano veramente ai personaggi. Alessandro Riva, che viene dal mondo della letteratura (ha infatti una facilità di scrittura come pochi in Italia), matura inizialmente interessi esterni all’arte, che poi ha utilizzato in campo artistico. Se vogliamo trovare dei riferimenti per così dire milanesi, Alessandro è nipote di Buzzati e di Scerbanenco, è l’erede di una Milano nera anni Sessanta, come si vede nei racconti di Bianciardi. Maurizio Sciaccaluga, per formazione era più uno storico dell’arte, sicuramente ha al suo attivo quest’ironia, questa leggerezza, tra l’altro venata da un certo disincanto. Nel discorso inserirei anche Marziani, che è emerso con il discorso legato al digitale, al Nuovo quadro contemporaneo e ha raggruppato un piccolo nucleo di artisti romani come Basilé, Consorti e Pintaldi. Quanto a me, ritengo, per fatto meramente anagrafico, di essere stato il primo a usare un certo tipo di scrittura contaminata e a non aver avuto paura di sporcarmi le mani con un materiale molto magmatico, emergente, con una curiosità che peraltro mi muove ancora oggi, a 46 anni d’età e quasi 20 di “militanza”. Quello che ci accomuna è stato sicuramente un esasperato senso del professionismo e il fatto di non pensare mai ad una strategia. Con Riva e Sciaccaluga ci sono stati momenti molto intensi di collaborazione, non da ultimo il progetto Indicativo Presente per l’edizione di MiArt 2007, dove abbiamo selezionato giovani artisti ancora poco noti e privi di galleria di riferimento.
Quali sviluppi futuri credi che vi siano per la Nuova Figurazione Italiana?
La continuità è data dal fatto che la pittura in Italia rimane uno dei linguaggi più praticati, a giudicare da quanti artisti continuino a partecipare ai premi e ai concorsi di pittura e a mandar materiale da visionare. In ogni caso, devo dire che nella pittura trovo sempre una grande energia, che passa attraverso i ragazzi dei vent’anni e mi piace anche la sua imperfezione, il fatto che non sia un prodotto nato espressamente per piacere, ma che abbia una sua grinta, una sua voglia di rinnovarsi. Ritengo comunque che questo lavoro debba andare avanti, anche e nonostante i cambiamenti avvenuti al corso delle cose, grazie all’impegno di critici di nuova generazione come te, Zanchetta, Quaroni, Mangione. Più che continuare, però, la vostra generazione deve inventare, trovare nuove formule e nuovi modi di essere per l’arte contemporanea. E se noi passeremo alla storia, è perché non abbiamo avuto paura di inventarla questa storia.
In copertina: una foto di Luca Beatrice durante la mostra dedicata al rapporto tra rock e arte, The Black Album, nel 2004 alla Galleria Antonio Colombo Arte Contemporanea di Milano.