La prima volta che l’avete incrociato sul manuale di storia dell’arte, a scuola, vi ha fatto simpatia, ci scommetto: dopo pagine e pagine di roba noiosa, un guizzo con l’Impressionismo e il suicidio di Van Gogh, l’omino allucinato che si teneva le mani sulle orecchie strappava un sorriso. Se però aveste saputo che cosa si annidava nella testa di Edvard Munch, forse avreste guardato L’urlo con altri occhi.
A cinque anni perde la madre per una tubercolosi, a quattordici, per la stessa malattia, la sorella Sophie, che ritrae con i lunghi capelli rossi sparsi sul cuscino più o meno nell’ultimo sorriso prima dell’agonia. Qualcosa si scatena nella mente del ragazzino: un cortocircuito (che Freud avrebbe certamente analizzato volentieri) tra la capacità delle donne di sparire nel momento in cui ne hai più bisogno e un’insana – assai morbosa – passione per i capelli rossi. Intorno agli anni Novanta dell’Ottocento – lui ha all’incirca trent’anni – la sua pittura è invasa da figure femminili di vampire che abbracciano uomini conficcando loro i denti nel collo, proprio sotto la nuca, mentre i loro lunghi capelli rossi, insinuanti come i tentacoli di un polipo, li avviluppano fino quasi a soffocarli.
Bene, potete immaginarvi che cosa scatta nella testa di Munch quando un giorno del 1898 si trova davanti la personificazione delle sue fantasie erotico-mortifere più audaci. Tulla Larsen è una ragazza ricca, altera, dagli occhi fiammeggianti e dai lunghi capelli rossi. E lo sguardo che si scambiano è lava rovente. Lei diventa in un battibaleno la sua musa e la sua amante. Lui, però, diventa la sua ossessione.
Già, perché Tulla è tutt’altro che una donna moderna, sessualmente libera, che si prende gli uomini che le piacciono e magari – sarebbe stato meglio – li vampirizza anche un po’. No: Tulla si porta dentro il trauma di aver perso il padre a sei anni e sta cercando un uomo a cui attaccarsi come una cozza. Quell’Edvard, non brutto, abbastanza isterico da stimolare il suo lato morboso e che la guarda come se fosse la Madonna le pare proprio quello giusto.
Per parte sua, Munch – a cui non sarebbe dispiaciuto, diciamolo, agire le sue più torbide fantasie sessuali – si vede preso in contropiede e praticamente braccato. Però non è che lei proprio gli faccia ribrezzo. E così comincia un tira-e-molla davvero estenuante, con lei che lo insegue e lui che si concede ma poi scappa. Quattro anni di croci e delizie finché lei, nell’agosto del 1902, inscena un suicidio per convincerlo a sposarla e un mese dopo, durante l’ennesimo litigio condito di urla, lacrime e brandy, si lascia scappare un colpo di pistola che attraversa la mano dell’artista e gli fa saltare via un paio di falangi dell’anulare sinistro.
Munch è preda di una rabbia folle. Ora, è solo un dito, alla fine, dai: tutti quei dipinti che ritraggono Tulla come un killer – uno si intitola proprio così: Assassina – in piedi in una stanza mentre sul letto giace un uomo con il petto coperto di sangue, sembrano un tantino esagerati. In effetti, però, poteva andare peggio.
Per fortuna questo shock mette fine all’ossessione di Tulla. Che rinsavisce di colpo, si domanda che cosa mai avesse visto in quell’ometto pieno di traumi irrisolti e si sposa con il pittore Arne Kavli, che non solo ha dieci anni meno di lei, ma la ritrae splendida, eterea come una donna angelicata.
Per contro, il nostro Edvard fa un po’ più fatica a dimenticare la sua carnefice e continua a ritrarla per diversi anni, anche se nell’Autoritratto con Tulla larsen del 1905 lei pare una vecchia strega, con la faccia grigia e le occhiaie.
L’artista troverà la risposta ai suoi sogni in Eva Mudocci, violinista inglese (nasce Evangeline Muddock) che sarà la sua compagna e la sua musa e che lui ritrarrà con i lunghi capelli (neri però) selvaggiamente sciolti sulle spalle e con il viso disteso in un sorriso.