Alla fine, a chiuderlo è stata la stessa artista e le sue curatrici: tutte israeliane. Parliamo del Padiglione di Israele, su cui si era appuntata l’attenzione dell’intero sistema dell’arte internazionale e del mondo della cultura in seguito all’appello, lanciato da Art Not Genocide Alliance (ANGA) e firmato da migliaia di artisti e intellettuali di tutto il mondo (tra gli altri, Nan Goldin e Martin Parr), che ne chiedevano a gran voce l’esclusione in conseguenza della scellerata guerra assassina di Netanyahu contro la popolazione inerme di Gaza, seguita a sua volta all’orrendo massacro di ragazzi e civili israeliani da parte di Hamas il 7 ottobre 2023 (qua e qua avevamo documentato le voci favorevoli e contrarie al boicottaggio). La Biennale, a suo tempo, aveva risposto picche: non se ne parla, il padiglione resta aperto. “Israele non solo ha il diritto di esprimere la sua arte, ma ha il dovere di testimoniare al suo popolo proprio in un momento come questo in cui è stato attaccato a sangue freddo da spietati terroristi”, aveva detto il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Oggi, a solo un giorno dalla pre-apertura destinata a giornalisti, critici e addetti ai lavori, un nuovo colpo di scena: il Padiglione rimarrà chiuso. Per volere di artista e curatrici. Che cosa è successo?
Quello che al momento si sa, è che un cartello è apparso sulla facciata del Padiglione Israele ai Giardini, attentamente sorvegliato da tre militari italiani armati. “L’artista e i curatori del padiglione israeliano apriranno la mostra quando verrà raggiunto un accordo di cessate il fuoco e di rilascio degli ostaggi”, si legge sul cartello. “detesto doverlo fare”, ha dichiarato Ruth Patir, l’artista (e attivista) che avrebbe dovuto rappresentare Israele a questa edizione della Biennale, “ma penso che sia importante farlo”.
All’interno, è in realtà già visibile, attraverso le grandi vetrate del Padiglione, la videoinstallazione di Patir, intitolata Keening. Ma il resto della mostra, (M)otherland, che era esposta nei due piani superiori del padiglione ed era tutta dedicata al tema della fertilità, “attende all’interno il momento in cui i cuori potranno nuovamente aprirsi all’arte”, fanno sapere gli organizzatori. “Sono fermamente contraria al boicottaggio culturale”, ha dichiarato ancora Patir, “ma ho una notevole difficoltà nel presentare un progetto che parli della vulnerabilità della vita in un momento di insondabile disprezzo per essa”. E, con un messaggio sul suo profilo Instagram, ha aggiunto: “Se mi viene assegnato un palcoscenico così straordinario, voglio che abbia un senso”, ha detto ancora Patir su Instagram: “sento che il tempo per l’arte è perduto e ho bisogno di credere che tornerà”.
Le curatrici del Padiglione, Mira Lapidot e Tamar Margalit, hanno appoggiato la decisione dell’artista: “Sono passati sei mesi dal brutale attacco contro Israele del 7 ottobre e dall’inizio della terribile guerra che infuria a Gaza”. Per questo motivo, “l’artista e le curatrici del padiglione israeliano apriranno la mostra quando sarà raggiunto un accordo di cessate il fuoco e di rilascio degli ostaggi”. Aggiungendo: “Non si vede la fine, ma solo la promessa di ulteriore dolore, perdita e devastazione. La mostra è chiusa e il padiglione attende di essere inaugurato. L’arte può aspettare, ma le donne, i bambini e le persone che vivono l’inferno non possono farlo”.
E ancora: “La decisione dell’artista e dei curatori non è quella di cancellare se stessi e nemmeno la mostra; scelgono piuttosto di prendere posizione in solidarietà con le famiglie degli ostaggi e con la grande comunità israeliana che chiede un cambiamento”. Un appello, dunque, di discontinuità verso la scellerata politica di Netanyahu, che all’orrore dello sgozzamento e del rapimento di innocenti (dei quali ancora molti sono in mano ai terroristi di Hamas) ha risposto con una strage senza fine.
Il progetto di Ruth Patir, (M)otherland, si basa su una videoinstallazione che aveva già visto la luce nel 2021 composta da bizzarre figure, tra l’arcaico e il tecnologico, che rievocano le dee della fertilità delle antiche civiltà mediterranee in un mix di rimandi al presente, a un futuro distopico e fantascientifico, e a un inconscio del femminino con le sue paure ancestrali e i suoi traumi in una società ancora fortemente patriarcale.
Patir utilizza infatti le tecnologie di motion capture per innestare registrazioni di movimenti del corpo reale sulle antiche statuette femminili (le reliquie archeologiche utilizzate per i rituali di fertilità attualmente esposte nella collezione nazionale del Museo di Israele), riuscendo così, da una parte, a liberare le figure dalle costrizioni cui le relegano i ruoli tradizionali di genere, permettendo loro di esplorare la propria sessualità e femminilità in modi nuovi, dall’altra creando cortocircuiti inediti, mettendole a contatto con nuovi mezzi di manipolazione tecnologica, attraverso rituali di fertilità artificiale e nuove costrizioni di genere, governate sempre dal potere maschile. Il progetto dell’artista manifesta così una tensione straniante e sottilmente angosciante tra naturale e artificiale, tra tradizione e innovazione, tra gravidanza naturale e inseminazione artificiale, ponendo molte questioni politiche, tecnologiche e sui conflitti di genere al centro del dibattito artistico, seminando, in definitiva, il dubbio che la tecnologia possa rappresentare al contempo sia un privilegio che una forma di controllo. Il progetto nasce dalla stessa esperienza dell’artista, a cui è stata diagnosticata la mutazione del gene BRCA2 (una condizione caratterizzata da una mutazione genetica) intorno ai 35 anni, cosa che la esponeva a rischio di cancro al seno e alle ovaie, spimgendola così a congelare i suoi ovociti per il futuro. Dalla sua esperienza personale sono nate le riflessioni e il lavoro che l’artista avrebbe dovuto portare in Biennale, con le sue bizzarre dee futurmoderne.
Oggi, di questo lavoro non si può che vedere una piccola porzione attraverso la vetrata del padiglione, o attraverso internet, o acquistando il libro dal titolo omonimo. Il resto, non è che il corollario politico-propagandistico di un’immensa tragedia che si trascina da decenni in una terra che sembra non voler trovare mai pace, tra soprusi, uccisioni e occupazione permanente della terra dei palestinesi da parte dei soldati israeliani e periodici scoppi di guerriglia e di massacri da parte dei terroristi di Hamas; una guerra tragica ma circoscritta, che oggi rischia invece di sfociare in una guerra ben più ampia. Per ora, in ogni caso, per l’arte sembra non esserci proprio posto: la parola resta alle armi.