Un buffo e strano drago che si mangia la coda, librandosi in aria in mezzo a un deserto dai risvolti vagamente psichedelici; un gufo fatto di foglie autunnali, consapevole della sua caducità; una rana liquida, che pare sciogliersi sulla cappella di un fungo poliedrico; un uccello fatto d’acqua, che trasporta misteriosi messaggi in bottiglia; e ancora, gechi che si trasformano in foglie, volpi che camminano sott’acqua, pesci trasparenti, uccelli specchianti, nuvole esplosive, animali-fiori, coccinelle mimetiche, piante liquide, lucciole aliene.
Sono i personaggi, a metà tra cartoon e universo magico-alchemico, dell’ultima mostra personale (“Mutamenti”, ArteA Gallery, Milano, a cura di Ivan Quaroni, fino al 13 Gennaio 2024) di Pao, artista di strada dallo stile accattivante, giocoso e fortemente riconoscibile, che gli è valso una forte notorietà fin dai primissimi anni Duemila: celeberrima, tra tutti, la figura del pinguino, divenuto ormai da vent’anni il suo “marchio di fabbrica”, dipinto a ripetizione, in tempi non sospetti – quando la street art non era ancora riconosciuta né diventata di moda, e gli artisti di strada tacciati di vandalismo – sugli spartitraffico a forma di “panettone” presenti sul territorio milanese.
Oggi, Pao segna una svolta nella sua pluridecennale carriera. Non stilistica, beninteso: giacché le forme, i colori, i personaggi sono ancora quelli che lo hanno reso famoso e apprezzato: e questo, va detto subito, è un bene, perché il “marchio di fabbrica” di un artista è dopotutto la garanzia del suo successo e della continuità del suo lavoro. Ma senz’altro in termini di senso, di ragionamento dietro alle forme festose e accattivanti: quella milanese non è (solo) una mostra allegra, giocosa, divertente, da vedere con tutta la famiglia, ma anche un ciclo nuovo, venato da un sottofondo alchemico e sottilmente misterioso. Un ciclo che ci fa pensare alle trasformazioni del paesaggio, del clima, delle nostre stesse esistenze, travolte negli ultimi anni da allarmi globali di ogni tipo: pandemici, ecologici, umanitari.
“È una mostra”, ci spiega l’artista, “nata per raccontare questa fase di incertezza, di grande mutamento globale. Non solo del paesaggio naturale, ma interiore, di tutti noi, della società. Certo, parla a modo suo del cambiamento e dell’emergenza climatica, ma anche delle nostre trasformazioni profonde, interiori: io per primo, mi sono sentito in una fase di grande cambiamento, e a partire da questo ho voluto elaborare questa nuova fase pittorica. Dove tutto è in divenire, nulla è definito in maniera stabile: ecco allora il motivo di questo grande mix di animali in perenne trasformazione, di paesaggio che sembra sempre in procinto di diventare qualcos’altro, abitato da una fauna che vi si fonde, si mimetizza e muta sotto i nostri occhi. Ma anche di figure archetipe, antichissime: il drago che si mangia la coda, simbolo dell’eterno ritorno, i fiori nei deserti, le luci vaganti nelle foreste…”.
Simboli che, ci fa sapere l’artista, in alcuni casi gli sono stati ispirati dalla lettura e frequentazione con i Ching, chiamato, non a caso, il Libro dei mutamenti: uno dei testi più antichi della cultura cinese, utilizzato anche a livello popolare, da secoli, come ausilio e responso nel momento di compiere scelte importanti per la propria vita pratica o spirituale. “In certi casi, con tempismo perfetto, la lettura del Libro e l’ideazione dei quadri si sono come magicamente sovrapposti: come nel caso della volpe sott’acqua, che avevo già cominciato a dipingere prima di ritrovarmi ad affrontare uno degli ultimi esagrammi, che spiega come, mentre le cose funzionano bene, può tornare il caos, se la volpe non sta attenta e si bagna la coda”. È l’Esagramma 64, “Prima del Compimento”: allorché la piccola volpe inesperta, che affronta le cose con superficialità, senza una preparazione adeguata o senza prestare la dovuta attenzione, rischia di bagnarsi la coda: ‘allora non vi è nulla che sia propizio’, avverte il libro.
Eppure, tutta la mostra, come del resto da sempre la sua produzione, è attraversata da un profondo senso di ottimismo, di giocosità, da un animo fanciullesco e favolistico, quasi che l’artista, anche di fronte all’imminente catastrofe e ai presagi tutt’altro che incoraggianti, tra cambiamenti climatici, violenze e guerre, volesse assumersi, con la sua arte, un ruolo apotropaico, di influsso benefico anziché di certificazione del dramma.
“Questa è e rimane la mia cifra”, dice l’artista. “Voglio sempre avere uno sguardo positivo sul mondo, non lo faccio per superficialità ma per scelta consapevole. Del resto, in un mondo che da decenni abbiamo sempre immaginato, attraverso il cinema e la letteratura, come distopico, tra apocalissi, stragi, tecnologie disumanizzanti e pandemie planetarie, e nel giro di pochi decenni ci siamo trovati inaspettatamente a vederle tragicamente realizzate e viverle dal vero, credo che lo sforzo di vedere un futuro migliore sia uno sforzo necessario, e forse benefico. C’è una frase di Jenny Holzer sulla street art che ho sempre amato, che dice che la street art “è arte fatta in segreto per la gente. Arte che si suppone non debba esistere. Arte su soggetti seri messa dove tutti possano vederla. Un’arte estremamente bella per mostrare quanto buone potrebbero essere le cose”. Ecco, io ho sempre cercato di far questo. Soprattutto oggi, che ce n’è un gran bisogno”.