The Brutalist: l’architettura del trauma e la fragile epopea dell’esistenza

Chi disegna spazi non plasma soltanto geometrie: scolpisce comportamenti, incide abitudini, orienta le traiettorie invisibili della vita umana. Ogni architettura è un atto politico e poetico insieme, un’estensione del sé che l’ha concepita. E in questo, l’architetto diventa demiurgo di mondi interiori, rivelatore di silenzi e memorie. È così che László Tóth — ebreo ungherese, sopravvissuto all’Olocausto e poi esule nell’America del dopoguerra — trasforma ogni progetto in un frammento della sua stessa carne ferita, in un altare di traumi stratificati e sogni sopravvissuti al disastro.

The Brutalist, monumentale pellicola di Brady Corbet, candidata quest’anno a 10 premi Oscar tra cui miglior film e miglior regista, si fa specchio di questa tormentata epopea umana. Oltre ad incarnare gli stilemi e i colori del biopic, è anche un affresco titanico sul peso della memoria e sull’impossibilità di separare l’arte dalla vita. László Tóth — interpretato da un magistrale Adrien Brody — è un architetto, un uomo in frantumi che tenta di edificare sulle proprie rovine.  

Giunto negli Stati Uniti, terra che accoglie ma non abbraccia, Tóth si muove come un corpo estraneo, un blocco di cemento grezzo tra le lisce superfici del capitalismo americano. Prima operaio invisibile, poi architetto misconosciuto, trascorre i giorni tra la mensa popolare e l’ospitalità tiepida di un cugino, finché un facoltoso erede della Pennsylvania, Harrison Lee van Buren (Guy Pearce), non gli commissiona la ricostruzione di una biblioteca paterna. Ma l’America degli anni ’50 guarda a Tóth con l’occhio torvo della tolleranza senza compassione. Il suo passato diventa così un fastidio sommesso, ridotto a un dettaglio scomodo nella narrazione collettiva del sogno americano.

Corbet, insieme alla sceneggiatrice Mona Fastvold, costruisce il film come un monumento teatrale — con ouverture, intermission e epilogo — tracciando un arco narrativo che abbraccia decenni di solitudini e dipendenze, umiliazioni e brevi lampi di grazia. László, con il suo inglese stentato e l’accento che graffia le frasi, è come un blocco di cemento che rifiuta di essere levigato. Ed è proprio in questa ruvidità che si cela la sua verità più profonda.

Il centro comunitario che van Buren gli commissiona — omaggio alla memoria della madre e specchio del suo narcisismo espansionistico — diventa la summa poetica dell’esistenza di Tóth. Per lui è l’occasione di cimentarsi in un’opera immensa, la sua vita, la sua biografia in cemento armato. Ogni corridoio, ogni angolo severo, ogni feritoia che lascia filtrare lame di luce racconta la sua prigionia, la lontananza, le ferite mai rimarginate. Il dolore si fa spazio, la perdita diventa architettura. Eppure, persino nella rigidità brutale delle forme, Tóth lascia spiragli di speranza: piccole fenditure nel cemento attraverso cui il sole riesce, a tratti, a insinuarsi.  

Corbet orchestra il tutto come una sinfonia tragica, usando colori e suoni per evocare l’oppressione, i muri invisibili che schiacciano László in una società che lo guarda ma non lo vede. Non c’è retorica, non c’è pietismo: c’è la crudezza di un uomo che tenta di sopravvivere in un mondo che lo vorrebbe piegato o, meglio ancora, invisibile.

The Brutalist diventa così un film sul peso della memoria e sulla brutalità di un sistema che ingloba l’individuo solo se questi rinuncia alla propria eccentricità. Ma Tóth resiste. Non si lascia levigare, non si piega. Il suo edificio — austero, solido, essenziale — è l’unico luogo in cui la sua anima può sopravvivere. È lì che deposita i frammenti della sua esistenza, scolpendoli nel cemento, fissandoli nel tempo.  

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