Tutto quello che avreste voluto sapere su Fontana e non avete mai osato chiedere. Paolo Campiglio racconta i segreti del maestro dello spazialismo (pt.2)

In questa conversazione con Alberto Fiz, Paolo Campiglio racconta la sua mostra al Musée Soulages di Rodez e anticipa i contenuti della biografia dedicata al maestro dello spazialismo.

La prima parte di questa intervista l’abbiamo pubblicata qua.

Ecco la seconda e ultima parte:

Nei prossimi mesi uscirà, per i tipi di Johan & Levi, la prima biografia di Lucio Fontana. A firmarla è Paolo Campiglio, tra gli studiosi più attenti dell’artista, che sul lavoro di Fontana ha lavorato per oltre vent’anni. Le rivelazioni non mancano. Nel frattempo, fino al 3 novembre, a Rodez, in Francia, nella sede del Musée Soulages, un’ampia retrospettiva, intitolata “Un futuro c’è stato” e curata dallo stesso Campiglio con Benoît Decron, mette in luce aspetti inediti e connessioni inaspettate sul percorso di uno degli artisti più importanti e originali dell’arte italiana del dopoguerra. Ecco la seconda parte dell’intervista a Paolo Campiglio.

Intervista di Alberto Fiz

Lucio Fontana e Yayoi Kusama alla XXXIII e Biennale di Venezia 1966 Foto by Gianni Berengo Gardin

Qual era il rapporto di Fontana con gli artisti più giovani? È ben nota la sua generosità e il fatto che scambiasse le sue opere con le loro pur di aiutarli. Ma possibile che non ci sia mai stato uno screzio?

Per tutta la vita Fontana è stato vicino ai giovani, sentiva le loro inquietudini, intuiva i loro gesti. Non si trovava molto a suo agio con i coetanei, eccezion fatta per Melotti, il suo grande amico di sempre. Negli anni Trenta a Milano i giovani erano Birolli, Sassu, Cantatore o Guttuso. Negli anni Quaranta, a Buenos Aires, erano i suoi allievi d’accademia o quelli del Gruppo Madì, nei Cinquanta di nuovo a Milano sono Crippa, Dova, Peverelli, con i quali fonda lo Spazialismo, o i nucleari Baj e Dangelo, nei Sessanta sono prima Yves Klein e Manzoni, poi i gruppi di arte cinetica e infine Kusama, Pascali, Fabro, Paolini, tra gli altri.

Fontana non era un astioso di natura, né si offendeva per gli insulti che riceveva dalla critica del tempo, anche dalle colonne del Corriere della Sera: continuava per la sua strada. Invece si arrabbiava sul serio quando un artista peccava di superbia o quando ricorreva a bassi sotterfugi. Lo irritavano i voltagabbana, gli artisti fumosi e soprattutto i disonesti. Non amava in particolare Emilio Vedova, e finché il pittore veneziano dipingeva nel suo studio a Venezia, non vi fu alcun motivo di attrito. Quando Vedova, in occasione dell’Expo di Montreal del 1967, crea l’installazione che oggi diremmo multimediale nel padiglione italiano, quel Percorso/Plurimo/Luce con proiezioni luminose di lastrine di  vetro, viene intervistato alla televisione con  una lunga trasmissione in cui spiega il suo concetto di arte ambientale in collaborazione con Marino Zuccari dello studio di fonologia di Milano. Suono, colore, luce. Sembravano le parole del Manifiesto Blanco del 1946. Fontana, dopo aver assistito alla performance televisiva del collega, pare sia andato su tutte le furie. Vedova a suo giudizio non aveva avuto l’umiltà di riconoscere di essersi posto nel solco di ricerche internazionali che da decenni avevano affrontato lo stesso problema, ma aveva basato tutta la sua esposizione sull’esaltazione della propria esperienza creativa, come spesso succede. Al Maestro questa parzialità, a suo giudizio intenzionale e truffaldina, suonava come un’egoistica e irragionevole proclamazione di superiorità, e lo attaccò pubblicamente.

Lucio Fontana nella sua casa di vacanza di Comabbio nel 1968 Al muro si vede un Tappeto Natura di Piero Gilardi Foto by Ugo Mulas

Qual è stato il rapporto di Fontana con le donne?

Come tanti artisti, anche Fontana era un cultore del genere femminile, amava la bellezza, le donne e queste erano attratte dal suo fascino latino, dalla dolcezza unita all’aspetto genuino di uomo virile (non dimentichiamo che era uno scultore), ma anche dalla sua proverbiale eleganza nel vestire. La gallerista Iris Clert, che lo ha frequentato all’età di sessant’anni, lo soprannominava ironicamente “Il Dongiovanni autunnale”. Ha avuto quindi moltissime relazioni. Però fin dagli anni Trenta ha cercato un rapporto speciale con Teresita Rasini, l’amore che durante la Seconda Guerra mondiale, quando era esule in Argentina, lo ha atteso a Milano per sette anni. Questo amore grande e corrisposto ha generato un rapporto unico, ufficializzato dal matrimonio del 1952 che ha offerto a entrambi quella felicità che gli altri non erano in grado di comprendere. Teresita era giudicata un’estranea nel piccolo mondo dell’arte contemporanea, e di fatto lo era. Eppure ha saputo sostenere Lucio nei momenti difficili (che sono stati moltissimi) ed aiutarlo, anche economicamente, più di qualsiasi altro gallerista o collezionista. Alcuni anni dopo la sua morte avvenuta nel settembre del 1968, ha costituito la Fondazione Lucio Fontana che ancora oggi opera a tutela dell’artista.

Quando è stata realizzata la prima mostra di Fontana all’estero?

A Parigi nel dicembre del 1937 alla Galerie Jeanne Bucher, Fontana ha presentato i risultati sorprendenti del suo stage alle ceramiche di Sèvres, dove per qualche mese aveva messo in crisi i mistici della tecnica, sperimentando in modo eretico la colorazione del gres, con smalti dai colori quasi accecanti. Una mostra di sculture in ceramica, magmatiche e coloratissime che passò praticamente inosservata. Tra l’altro, ironia della sorte, di quella suite di gres è rimasto pochissimo perché nel 1968 la fabbrica, nell’intento di liberare certi magazzini, ha pensato bene di distruggere letteralmente le casse con le opere giovanili di Fontana,  che sono andate in frantumi. Non è certo un bell’esempio di conservazione per il museo di Sèvres, ma i francesi hanno ampiamente rimediato al loro passato con la grande mostra di Parigi del 1987 al Centre Pompidou e quella del 2014 al Musee d’art moderne de la Ville de Paris.

La mostra al Musée Soulages s’intitola “Un futuro c’è stato”. Qual è il futuro di Fontana?

Il titolo della mostra deriva dall’espressione ambigua e sibillina che Fontana usa nell’intervista a Carla Lonzi nel 1967 e ha un duplice significato: da una parte Lucio costatava che le sue “predizioni” dell’uomo nel cosmo si erano avverate (l’uomo era a un passo dall’allunaggio) ma anche da un punto di vista artistico le tendenze si erano orientate in una direzione che lui aveva sempre previsto, con la libertà nell’uso dei media da parte dei giovani e l’affermarsi, in generale, dell’arte concettuale. Fontana, non dimentichiamolo, era stato il primo a non parlare più di opera, ma di “concetto” per definire una nuova dimensione del fare artistico. Non è solo questo: tanta arte in quegli anni gli doveva un tributo, magari senza saperlo, come nel caso di Dan Flavin, ad esempio, che usa il neon senza conoscere la sua arte. Fontana stesso ammetteva che non si aspettava questa incredibile generazione di artisti, come ad esempio la Pop Art di Lichtestein, che stimava molto come fenomeno autenticamente americano, i giovani come Pascali, Paolini, Fabro, la nascente Arte Povera. Il concept della mostra parte quindi da questo presupposto e pone in evidenza la produzione più sperimentale, anticipatrice, a cui si è dedicato fino all’ultimo anno di vita, avendo l’abilità di rinnovarsi anche nell’ultimo periodo.

Le foto pubblicate in questo articolo sono tratte dal catalogo “Lucio Fontana, Un futuro c’è stato“, edito da Gallimard in occasione della mostra curata da Paolo Campiglio con Benoît Decron, aperta fino al 3 novembre a Rodez, in Francia, al Musée Soulages.

2 – Fine.

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