Visitare la mostra “Georgia O’Keeffe: ‘My New Yorks’” all’Art Institute di Chicago è come entrare in una dimensione parallela dell’opera di un’artista che credevamo di conoscere. O’Keeffe, celebrata per i suoi fiori in grande scala e i paesaggi del New Mexico, viene qui riscoperta come cronista di una città in trasformazione: New York. In questa esposizione, le opere della città, spesso trascurate, sono finalmente messe in risalto, svelando un lato sorprendente della sua creatività e una lettura inedita della sua evoluzione artistica.
C’è una tensione palpabile in queste tele di New York che non troviamo nei suoi lavori più famosi. I grattacieli di O’Keeffe si stagliano contro cieli notturni, bui e intensi, come se volessero reclamare il loro spazio in un’America in rapida evoluzione. Opere come “New York Street with Moon” (1925) e “City Night” (1926) mostrano una città priva di vita umana, ma non di carattere; i grattacieli diventano protagonisti, quasi esseri viventi, dotati di una propria anima e presenza. C’è un senso di soggezione che traspare, come se O’Keeffe fosse affascinata e intimorita dalla modernità che la circondava.
Ma la domanda è: perché questi dipinti non hanno mai ottenuto la stessa attenzione dei suoi fiori o delle sue montagne? La risposta forse sta in una sorta di “censura” silenziosa che la stessa O’Keeffe subì per mano di Stieglitz, suo marito e mentore, che scoraggiò la presentazione dei suoi “New Yorks” in favore di opere più “naturali”. Ma questa mostra, quasi un secolo dopo, corregge quella scelta. Finalmente vediamo come le sue vedute urbane fossero non solo una deviazione dal suo stile, ma una vera e propria estensione di esso.
I curatori, Sarah Kelly Oehler e Annelise K. Madsen, ci sfidano a ripensare O’Keeffe come un’artista di paesaggi urbani, accostando i suoi dipinti di grattacieli ai suoi paesaggi del New Mexico, suggerendo una continuità visiva e concettuale. Questo dialogo tra opere apparentemente distanti ci spinge a riconoscere che per O’Keeffe New York non era solo una città, ma un soggetto poetico, denso di significato emotivo e simbolico.
Prendiamo “New York, Night” (1928-29), esposto accanto a “After a Walk Back of Mabel’s” (1929). In entrambi i dipinti, l’artista gioca con la luce e l’ombra, creando un linguaggio visivo che rende simili un moderno grattacielo di New York e una roccia frastagliata del New Mexico. O’Keeffe ci invita a vedere la città come un’estensione della natura, un luogo in cui le linee dure degli edifici incontrano la morbidezza delle forme naturali.
Una nuova lettura di O’Keeffe, non più solo come pittrice immanente di fiori e paesaggi, ma come interprete della modernità. Le sue opere di New York sfidano le convenzioni del suo tempo. Sono audaci, sperimentali e, in molti casi, più vicine al modernismo europeo che all’arte americana del suo periodo. Guardando i suoi dipinti di Manhattan, si avverte una sensazione di stupore e di soggezione: è come se l’artista stessa fosse sorpresa da ciò che la città stava diventando.
O’Keeffe utilizza il linguaggio della modernità per rispondere a un mondo in cambiamento, e in questo processo sviluppa una nuova forma di espressione artistica. Le sue “New Yorks” sono un tentativo di comprendere e di reimmaginare un paesaggio urbano che sfugge a ogni facile definizione. C’è un senso di isolamento nei suoi grattacieli solitari, ma anche di possibilità infinita. Questa ambiguità è forse il segreto del loro fascino.
Alla fine del percorso espositivo, ci si trova di fronte a “Manhattan” (1932), con i suoi grattacieli che emergono tra fiori dai toni rosa e bianchi. È un’immagine che riassume perfettamente l’idea della mostra: anche quando O’Keeffe lasciò definitivamente New York per il New Mexico, portò con sé una parte di quella città, un’influenza che continuò a nutrire la sua arte. Forse senza i suoi “New Yorks”, non ci sarebbe l’O’Keeffe che conosciamo oggi. Perché Georgia, infondo, era sempre in cerca di nuove storie da raccontare.