Da Festival di Poster Art a progetto d’Arte Pubblica: conosciamo meglio CHEAP e quali sono le sue prospettive future.
CHEAP è stato prima un festival di poster art, poi un progetto di arte pubblica che ha fatto della carta il medium prediletto per la realizzazione delle proprie creazioni. Fa il suo ingresso per la prima volta nel panorama di Bologna nel 2013, da allora non si è più fermato. È cresciuto incessantemente affermando sé stesso come punto di riferimento sulla scena degli eventi dell’arte di strada italiani, attraverso una lunga serie di progetti mai scontati e dalla potenza dirompente, instaurando collaborazioni a più livelli con giovani artisti emergenti e grandi nomi internazionali. Ne abbiamo parlato con Sara Manfredi, co-founder di Cheap.
Mi raccontereste come nasce Cheap, da quali esigenze e in che modo intrattiene il suo dialogo con la città?
CHEAP nasce dall’intesa creativa di 6 donne. Nel 2012, eravamo interessate a lavorare sul paesaggio urbano e a farlo indagando il paste up, l’attacchinaggio di poster e tutte le modalità di stare in strada utilizzando la carta come strumento: un modo di attraversare lo spazio pubblico che per noi era la definizione dell’effimero, di una serie di gesti anti monumentali, un’idea del contemporaneo che ha molto a che fare con la temporaneità – la public art non si misura solo in centimetri, ma anche in secondi. Dal 2013 al 2017, per 5 edizioni, CHEAP ha lavorato con la carta, ha flirtato con l’effimero, ha sollecitato narrazioni contemporanee sul paesaggio urbano, ha contribuito al discorso sullo spazio pubblico. E lo ha fatto con il format del festival: ogni maggio e per dieci giorni, accoglievamo 5 guest artist internazionali invitati a realizzare interventi site specific, in quartieri diversi della città; all stesso tempo, installavamo un migliaio di poster arrivati in risposta alla call for artist nelle bacheche delle strade del centro; a queste azioni si aggiungevano block party in strada e una serie di eventi all’interno di in una rete di luoghi dati all’indipendenza. Nel gennaio del 2018 è stata annunciata la fine di questa esperienza. Abbiamo mantenuto la call for artist annuale, un segmento ereditato dal festival che per noi rimaneva importante perché aperto e partecipativo. Abbiamo modificato la modalità in cui interveniamo in strada: non ci annunciamo, non ci diamo scadenze, lavoriamo in maniera più progettuale e mirata, con la sensazione di essere sfuggite al tritacarne del festival e alle sue dinamiche non esattamente virtuose.
Fin dalla nascita, Cheap si è sempre caratterizzato per una ben dichiarata presa di posizione nei confronti di temi oggi molto dibattuti come il ruolo del cittadino nella città o la sempre più invasiva gentrificazione, che ha trasformato Bologna nella città del food con un rapporto di sette ristoranti per ogni cittadino. Me ne volete parlare? Come scegliete i temi e come cercate di affrontarli?
La città in quanto spazio pubblico è messa a tema perché lo spazio pubblico per noi è il tema. Il tempo in cui viviamo è stato trionfalmente annunciato come il secolo delle città, noi preferiremmo fosse il secolo delle cittadinanze, il secolo del diritto alla città: il diritto di poterne fruire, di poterne decidere e di poterla immaginare diversa per cambiarla.
Per i primi cinque anni Cheap è stato un festival di grande successo, anche troppo. Col passare del tempo qualcosa è cambiato dentro Cheap, nella città e anche nel mondo della street art. Per citarvi avete deciso di “fare una bella decapitazione pubblica di Cheap in quanto festival”. In che senso? In quale modo avete affrontato questo cambiamento? Perché lo avete fatto, cos’è che ha fatto scattare la molla e, soprattutto, cos’è diventato Cheap dopo?
A cambiare è stata anche la città. E tra i cambiamenti più impattanti c’è stata l’elezione a capitale del cibo. Anche a causa di altri fattori, Bologna oggi vive una crisi che arriva da lontano e che è soltanto amplificata e catalizzata da un fenomeno come Air bnb: non solo la città non riesce a garantire il diritto alla casa ma la stessa città sta diventando inospitale verso quei gruppi, quelle comunità, che ne hanno profondamente segnato l’identità. Non sappiamo esattamente cosa resti di una città universitaria – della prima città universitaria fondata in Europa – se non ci sono più studenti, visto che non gli viene consentito l’accesso ad una casa. Allo stesso modo, la vocazione al contemporaneo di Bologna è destinata ad evaporare se chi fa arte e chi si occupa d’arte non ha la possibilità di accedere ad uno studio, uno spazio aperto al pubblico, una factory o un atelier condiviso. Se la città che è stata avanguardia politica e sociale del paese non riconosce più le comunità che come laboratori sociali sperimentano autogestioni, né le pratiche che rinnovano quell’onda d’oro che ha definito la nostra cultura urbana, allora diventa molto difficile dire che cosa resta di Bologna. I tortellini, probabilmente.
Alcuni sostengono che negli ultimi anni la street art sia rapidamente cresciuta, altri che in realtà sia solo regredita. In ogni caso, stiamo assistendo ad un sempre maggior numero di persone che decidono di utilizzare la strada come mezzo di espressione o di auto-promozione. Allo stesso modo, si evidenzia un palese (ma evidentemente non troppo) contrasto tra quelli che utilizzano temi cari come quello del femminismo allo scopo di sensibilizzare il pubblico, contrapposto a quello della street art in rosa che ha l’unico fine di compiacere, cavalcando l’onda per far parlare di sé sui giornali. Come si pone Cheap nei confronti di questo dibattito?
Posso solo darti una risposta a partire dal nostro lavoro, visto che il 18 giugno siamo tornate in strada con un progetto femminista di arte pubblica, La lotta è FICA. Nei 25 poster sono rappresentate le lotte femministe che intersecano l’antirazzismo, trova fisicità lo sguardo queer sui generi, entrano i corpi delle donne, corpi trans e corpi eccentrici. Un divertissement femminista su poster per il quale sono state chiamate a raccolta 25 artiste: illustratrici, grafiche, fotografe, performer, fumettiste, street artist – una pluralità di media che corrisponde ad un vasto campionario di biografie e visioni, unite dalle prospettive del transfemminismo. All’interno di questa pandemia, i divari di genere preesistenti si sono dilatati. Si è chiesto di restare in casa anche a donne che nelle proprie case non sono sicure perché convivono che uomini violenti: il problema della violenza di genere è stato completamente ignorato all’interno del discorso pubblico istituzionale.
Sono state chiuse le scuole e non sono mai state riaperte configurando uno scenario piuttosto scontato: se già in un periodo di normalità (e per normalità ci riferiamo all’assenza della peste) la divisione del lavoro sulla base dei ruoli di genere comporta per le donne una maggior responsabilità in termini di lavoro di cura domestica, è piuttosto evidente che la chiusura delle scuole insieme alla malattia dei familiari hanno fatto aumentare questa richiesta esponenzialmente, causando con ogni probabilità l’abbandono da parte delle donne del lavoro salariato, specialmente per quelle che non possono attuare lo smartworking. La crisi sanitaria legata alla pandemia ha effetto anche sullo spostamento di risorse economiche dai servizi di salute sessuale, riproduttiva, materna: in un paese dove i consultori erano insufficienti prima dell’arrivo del virus, è legittimo temere che alle donne non verrà garantito il diritto di accedere a servizi sanitari fondamentali.” In uno scenario del genere ripartire dal femminismo ci è sembrato solo un atto di buon senso. L’intervento arriva nelle strade di Bologna a pochi giorni dalla nuova ondata di polemiche sulla statua dedicata a Montanelli a Milano: era in cantiere da gennaio ma non c’e nessuna casualità nel timing della situazione perché stiamo finalmente assistendo ad un cambiamento del paradigma. A Bristol, la statua dello schiavista Edward Colston è stata rimossa e buttata nel fiume; negli Stati Uniti varie statue di Cristoforo Colombo sono state rimosse. A Milano si è affermato una cosa che noi troviamo di una banalità sconcertante, cioè che uno stupratore non merita una statua e attraverso di essa una celebrazione pubblica: eppure abbiamo assistito ad una levata di scudi agghiacciante in difesa di un suprematista bianco che parlava della sua schiava bambina come di un “animaletto docile”.
Non siamo certe che la difesa del privilegio bianco maschile e coloniale si fermerà alla schiera dei bimbi di Montanelli che si stanno stracciando le vesti, argomentando che lo “stupro va contestualizzato”. Temiamo invece che non solo assisteremo a scene indegne del genere ogni qualvolta un simbolo dell’oppressione verrà contestato ma che le stessa situazione si ripeterà quando cercheremo di produrre un immaginario critico in opposizione a quello sopra citato. CHEAP oggi produce un intervento di arte pubblica che parla di femminismo, della connessione del potere sistemico nel generare funzionalmente sessismo e razzismo, della necessità di elaborare strumenti di decolonizzazione, di rappresentare corpi che orgogliosamente esulano dalla bianchezza o dall’eteronormatività o dalla visione binaria del genere: così come sappiamo che non si è pronti a eliminare i simboli del privilegio, pensiamo che sia ora che si facciano i conti anche con quelli della nostra liberazione. Esattamente come sta succedendo nel resto nel mondo: il dibattito vero dell’arte contemporanea oggi è attorno alla decolonizzazione come pratica artistica e riguarda tutte le figure coinvolte – artist*, curatrici, musei, collezionisti, AD, critiche, scrittori. La decolonizzazione è LA questione. Per noi si connette intersezionalmente ad altri grandi temi del femminismo affrontati nella pratica artistica di donne il cui lavoro è per noi un riferimento: le Guerrilla Girls, con cui abbiamo collaborato nel 2017, si sono per anni concentrate sulla questione del gender gap all’interno del sistema dell’arte; Tania Bruguera è stata ospite a Bologna della biennale Atlas of Transitions, dove ha realizzato un intervento tra arte pubblica e arte partecipata che sviscerava i temi della migrazione e dei confini, un’eredità coloniale; Kara Walker oggi porta avanti un percorso straordinario sulla blackness, percorso che lavora su altre pesantissime eredità coloniali e sui residui del suprematismo bianco.
Parliamo dell’ultimo progetto che avete realizzato. RECLAIM è il filo rosso che collega tutti i progetti da voi promossi per questo 2020: RECLAIM OUR CITY, RECLAIM YOUR TIME, RECLAIM YOUR POWER. Come una predizione azzeccata dalla sfera di cristallo, sono diventati i temi più caldi e discussi del momento. Purtroppo, il progetto RECLAIM è partito con i primi eventi nei mesi scorsi per poi vedersi venire a mancare il pubblico che popolava le strade, cioè il vostro palcoscenico. Parlatemi di RECLAIM, come avete scelto questo tema? Quali eventi avete già sviluppato a tal proposito? Come il progetto cambierà (se cambierà) e verrà influenzato dalla situazione che stiamo tutti vivendo?
Era la fine di dicembre 2019. Per le strade di Bologna cominciavano ad apparire una serie di poster che interrogavano direttamente chiunque attraversasse lo spazio pubblico: a chi appartiene il tuo tempo?, chi decide del tuo corpo?, hai diritto alla tua città, cosa fai dei tuoi privilegi?, torni mai a casa sola di di notte?. A metà gennaio del 2020, arrivava nelle strade anche una risposta, un’esortazione: RECLAIM, una rivendicazione che tornava sul tema del corpo, del tempo, del diritto alla città, all’autodeterminazione. Si trattava del lancio della nuova call for artist, il cui testo iniziava così: “Rivendicare qualcosa che ti è stato tolto. Precluso. Qualcosa che è tuo. Sulla base di un diritto. O di un desiderio.” Nessuno immaginava che nel giro di poco la dimensione di ciò che ci sarebbe stato precluso avrebbe subito un’espansione esponenziale – esponenziale, proprio come la diffusione del virus. La pandemia si è rivelata un reality check in grado di ridisegnare prospettive che solo a gennaio sembravano frutto di un esercizio distopico. Se da una parte la crisi crea delle accelerazioni, dall’altra ha la capacità di espandere dei macrotemi: fa esplodere questioni come quelle del corpo, del tempo, del privilegio e dello spazio pubblico in relazione allo stravolgimento che stiamo vivendo – il corpo che si confronta e scontra col virus, il tempo della quarantena, il privilegio nell’emergenza, la preclusione della città e della partecipazione alla vita civile.
Per la scorsa edizione di Arte Fiera a gennaio 2020, nella settimana in cui il contemporaneo infesta Bologna, CHEAP ha abitato con l’impermanenza che le è propria uno spazio temporaneo nel centro di Bologna: uno spazio vuoto trasformato in contenitore del concept che abbiamo scelto per il 2020, RECLAIM. La suggestione è protagonista del temporary space con un’installazione di bandiere d’artista: un progetto che non si è esaurito in questa prima data ma che proseguirà con i contributi de* artist* che decideranno di indagare il particolare supporto rappresentato dalla bandiera, nel tentativo di cortociruitarlo e di affidargli una narrazione che sovverta il racconto di confini, identità nazionali e visioni post coloniali – bandiere come corpi, come ponti, mai come muri. Lo stesso spazio fisico del temporary replicava un’immaginario di attraversamenti di frontiere, di frontiere come proiezioni, di proiezioni da decostruire: era infatti ricoperto integralmente da 100 coperte termiche un oggetto diventato simbolo, speriamo non feticcio.
A maggio 2020 è partito RECLAIM your future: è questa la scritta che riportano sulle bandiere che hanno iniziato ad apparire alle finestre di Bologna. E poi di Milano e Roma, Rimini, Torino, Monaco di Baviera. La pandemia ha avuto come effetto per CHEAP quello di allontanarci dalle strade dove vi davamo appuntamento. Questa bandiera è stato il nostro primo tentativo di tornare ad abitare, se non proprio lo spazio, almeno lo sguardo pubblico. E di farlo dalle finestre, dai balconi, dalle porte, dai portoni, dalle vetrine che si affacciano sulle strade. Nel susseguirsi delle settimane della quarantena, spesso abbiamo pensato al futuro con un senso di straniamento, come se fosse un tempo e uno spazio preclusi: temiamo che si tratti di un’esperienza comune e per questo abbiamo cercato un esorcismo.
RECLAIM your future è prima di ogni altra cosa il nostro invito a un atto di immaginazione, il ritorno ad una conversazione interrotta sugli sforzi progettuali per trasformare le nostre comunità, un semplice gesto creativo che vogliamo credere sia in grado di far saltare il tappo che occlude il nostro sguardo sui futuri (im)possibili.