Beth Moon e Omar Galliani: #opere a Bologna

È possibile provare un fastidio quasi fisico di fronte ad alcuni scatti come ‘Last Comes the Raven’, fotografia realizzata da Beth Moon nel 2006-2007. Per inciso, “Last Comes the Raven” è anche il titolo di un’opera di Italo Calvino, “Ultimo viene il corvo”, una raccolta pubblicata per la prima volta nel 1949. In particolare, il racconto, scritto nel ‘47, descrive un ricordo degli anni di guerra, quando un gruppo di partigiani e un ragazzo si trovano sulle rive del fiume a pescare. Pescano trote con i fucili e il ragazzo, che chiede agli uomini di poterlo usare, dimostra di avere una mira perfetta.

Last Comes the Raven Beth Moon

Si unirà a loro, ma durante la notte aprirà il fuoco su un gruppo di soldati nemici lanciandosi all’inseguimento di uno di loro nel bosco. Per cercare di stanare il nemico, nascosto dietro una grande pietra, il ragazzo spara a ogni uccello di passaggio. Per ultimo, per l’appunto, volteggia un corvo: vola a lungo, sopra alle due teste. Ma il ragazzo non spara, così, sfinito dalla tensione, il soldato esce allo scoperto e indica l’uccello: è allora che il ragazzo fa fuoco, colpendo al centro del suo petto lo stemma dell’aquila cucito sull’uniforme.

Ecco che il corvo, simbolo antico, torna in questi scatti: nella fotografia di Beth Moon l’uccello, legato alle spalle, ci fa sentire scomodi perché evoca la morte, l’immobilità e la crudeltà silenziosa che c’è dentro l’essere preda. Diventiamo anche noi un bersaglio mobile; della morte e del tempo sentiamo il peso da portare sulle spalle mentre camminiamo, nel viaggio della vita che si compie ogni giorno. Ma la contemplazione della morte sa trasformarsi anche in muta preghiera, come nell’opera di Beth Moon ‘Whisper of the Coyote’. Gli sguardi non si incontrano: non possono più incontrarsi.

Whisper of the Coyote Beth Moon

La separazione è la dura legge della fine della vita. Gli occhi, come in una veglia funebre, si chiudono, ma in questo caso per chi è a fianco si tratta di abbassare le palpebre come via per trovare rifugio nel proprio mondo interiore, connessione invisibile con l’altro nel silenzio. La mano è sul cuore. Non vedere diventa allenamento al sentire e forse è anche questo che l’artista desidera invitarci a fare: attraverso una fotografia poter imparare ad andare oltre la curiosità degli occhi per sperimentare l’empatia che è condivisione di un sentimento.

Beth Moon nasce negli Stati Uniti nel 1956 a Neenah e studia Belle Arti presso l’Università del Wisconsin, dove si allenerà con la pittura, il disegno dal vero e la scultura prima di trasferirsi in Inghilterra. Sarà l’insoddisfazione verso le tonalità delle stampe a spingerla a stampare lei stessa i suoi lavori. La tecnica utilizzata da Beth Moon costituisce parte integrante del suo lavoro. Quella che sperimenta è la stampa al platino palladio, una tecnica antica che si caratterizza per la ricchezza delle sfumature cromatiche e la stabilità nel risultato finale, che rende durevole nel tempo l’opera fotografica.

“Le fotografie hanno la capacità di bypassare la retorica della parola scritta, andando direttamente al cuore” ha spiegato Beth Moon. Lei, celebre per aver fotografato alberi millenari testimoniando il pericolo della loro rapida sparizione negli ultimi cinquant’anni anni, allo stesso modo si è soffermata ad analizzare i processi di stampa e produzione. Lavorare con i cristalli di platino e i metalli creando un’immagine durevole nel tempo per l’artista richiama il medesimo concetto di tempo, lungo, millenario, degli alberi osservati. A questo proposito, ha detto “Senza rivali tra gli altri processi di stampa, il platino è, come l’oro, un metallo stabile. Una stampa quindi può durare per migliaia di anni, emulando l’età degli alberi che ho fotografato”.

“Dati il tempo e le risorse necessari per produrre un’immagine, solo le migliori vedranno la luce. Per me questo processo diventa quindi un modo per rallentare il processo creativo. Ogni passo ha bisogno di un’attenta contemplazione, senza distrazioni. Un alto livello di concentrazione e ritmo è molto importante perchè il lavoro fluisca. Utilizzo una macchina fotografica di medio formato e ancora preferisco la pellicola nonostante abbia incominciato ad utilizzare una fotocamera digitale. Il processo al platino/palladio di tonalità che vanno dal nero carbone, ai grigi neutri, al seppia intenso. Il colore è controllato dall’umidità. Prima che la carta sensibilizzata sia esposta alla luce che passa attraverso il negativo, viene messa in una scatola per l’umidificazione. Si tratta di un contenitore impermeabile con una grata di plastica sospesa sull’acqua sulla quale stanno stese le stampe. Anche la scelta della carta è essenziale. Utilizzo la Arches Platine, una carta per acquerello cento per cento cotone con un collante naturale che viene prodotto uguale in Francia dal 1492”.

La fotografia diventa meditazione sul Tempo per le tematiche quanto nelle tecniche utilizzate: densità dell’aria e della memoria, vita e morte, poesia del tempo che ci attraversa nello stesso modo in cui passa attraverso la carta fotografica e la disegna, bloccandola in un momento che è “per sempre”. Come in un fil rouge che percorre l’esposizione, accanto alle fotografie di Beth Moon troviamo le opere dell’artista emiliano Omar Galliani, appartenenti alle serie ‘Il Sutra del Diamante’ e ‘Nei gioielli’: un altro racconto sull’esistenza, attraverso la luce e l’ombra, meditazione sulla vita e sull’arte.

La natura e il nostro essere nell’universo, immersi nel mondo e al di là della dimensione istintuale, rappresentano una meditazione sulla nostra identità che non è esente dal dolore. La sofferenza ci sfiora e ci tocca, ci penetra: il dolore è una dimensione di cui facciamo parte, talvolta provocato, talvolta subito. Si tratta della ruota dell’esistenza del mondo terreno che lo impone, ma al tempo stesso l’arte, ancora una volta si trasforma nello strumento che abbiamo per cucire insieme la materia del temporaneo e farne una stoffa magica dove poter immaginare l’infinito. Del suo processo creativo spiega Omar Galliani: “Ogni volta che inizio un disegno o un dipinto dimentico la terra e il cielo. La superficie è morbida e algida, il segno è netto e scuro. Il desiderio di iniziare l’opera nasce prima, durante un viaggio, in una sala d’attesa, mentre salgo o scendo una scala, ascoltando musica, correndo, nuotando, sognando. La bellezza è ancora lì, sospesa tra la gravità del suolo e il cielo. Dire dove alberghi o riposi prima del gesto creativo è difficile dovendola liberare dall’orrore e dalla decadenza dei tempi che viviamo”. Ecco, la bellezza. La bellezza come strumento di osservazione, del mondo quanto di noi. Cosa rara e densa di poesia, è anche il tassello che siamo invitati a ricercare in ciò che ci circonda. La bellezza è capace di smuoverci e portare la nostra coscienza e il mondo verso un salto: è la connessione empatica che ci manca e che potremmo costruire se osiamo pensarci come parte di un tutto, al di là delle divisioni.

La galleria Ariete di Bologna presenta una selezione di opere di Beth Moon e Omar Galliani, visibili in galleria dal 28 al 31 maggio e dal 10 al 14 giugno 2024 dalle ore 17 alle 19.30. Dopo la personale ‘Between Earth and Sky’ del 2014 e la mostra ‘Diamond Nights’ del 2017, in questa occasione Beth Moon sarà presente con ‘Thy Kingdom Come’ del 2006 2007. Di Omar Galliani vengono presentate tre opere appartenenti ai cicli ‘Il Sutra del diamante’ e ‘Nei gioielli’.

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