Marco Crippa, la Milano in pittura alla Permanente

È bello vederlo vivo e vitale, ieraticamente assiso su una poltrona del set fotografico appositamente allestito alla Permanente di Milano (Milano nelle opere di Marco Crippa, fino al 7 gennaio 2024), per celebrare i suoi sessant’anni di pittura, con la bella testa d’artista elegantemente incorniciata nel basco bohémien di velluto raso pervinca, simbolo vivente di una Milano dell’arte popolare (non Pop) che se non ci fosse ancora lui non ci sarebbe proprio più.

Marco Crippa ha finalmente ricevuto gli onori della città che ha dipinto, forse con più forsennata e appassionata dedizione, devozione anzi, che ogni altro vedutista da cavalletto della storia dell’arte milanese degli ultimi secoli, dopo gli Induno e Angelo Inganni. Forse più di loro. In mostra a Milano è possibile vedere una sessantina di opere del “maestro di strada” (classe 1936), l’ultimo impressionista materico, chiamiamolo così, per la maestrìa istintiva e impeccabile nell’uso alternativo al pennello, ovvero lo sversamento diretto del colore dal tubetto. 

In molti momenti compositivi, esaltato dalle forme intrinsecamente dinamiche della città, Crippa non soleva por tempo in mezzo (come gli suggeriva Milano, e il moto perpetuo che anima la città) e attingeva la forma e il colore direttamente dalla sorgente, ovvero il supporto tecnico di cui disponeva, unito al rapido occhieggiare sul paesaggio urbano. 

L’effetto pittorico era, ed è tuttavia, straordinariamente efficace, trasmette la stessa vivezza del gesto mimetico che incantava i passanti, costretti a fermare il loro passaggio frettoloso, attratti dalla forza ipnotica del dipinto in fieri, quando Crippa soggiogava le folle agli incroci e agli angoli di Milano. E restituiva al pubblico spontaneo delle vie l’immediata realtà della città che non sta mai con le mani in mano. 

La sua mano era tutt’uno con il movimento che passava per gli occhi. Straordinario il potere riproduttivo dell’anima profonda di Milano, profondamente respirata fin dall’infanzia dall’artista, nato e cresciuto all’Isola, quartiere che fu popolare, oggi radicalmente gentrificato, ma ai suoi tempi scosso fin dall’alba dai canti e dai gridi del dialetto di muratori e lavandaie, di massaie accorte che passavano minestre calde dai ballatoi alle vicine meno abbienti.

Fa bene il curatore della mostra, Mimmo di Marzio, a collocare criticamente al di fuori dello sperimentalismo audace delle gallerie milanesi del periodo post bellico milanese l’opera di Marco Crippa, e fa bene a definire come fenomeno a se stante, e tuttavia perfettamente coerente con il periodo, ancorché al di fuori delle tendenze, le “fenomenologia” di un artista che ha pervicacemente proseguito la tradizione dei maestri ottocenteschi, imprimendo al proprio tratto singolarità e distinzione.

Crippa era cresciuto nel rispetto del bisogno, orfano di madre ebbe la fortuna di essere allevato da un padre sensibile che ne colse l’istinto di artista, e lo incoraggiò.

Dopo i corsi serali all’accademia di Brera, il giovane Crippa scelse la strada come atelier, e dalla strada ricavò vedute immortali, che vale la pena di andare a rivedere, per ritrovare il gusto dell’arte come espressione della pura pittura, senza infingimenti, né sforzi intellettuali non dovuti. Non necessari, perché sta negli scorci istantanei e densi di Marco Crippa la vera Pop Art alla milanese.

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