Il Natale è alle spalle ma io ancora fatico ad abbracciare il dry January. Sarà che le conversazioni che eviti come la peste con la famiglia fino al punto da trasferirti in un altro stato ti piombano addosso tutte concentrate in quei pochi giorni, ma nei solfiti continuo a trovare del conforto vero.vIn particolare, durante la cena della vigilia, oltre a dare un tocco esotico al menù proponendo la paella come primo piatto, ho intrattenuto una pseudoconversazione con una parente, la quale continuava a sostenere che “i meridionali non hanno voglia di fare un cazzo” e ancora “però vengono qui e ci rubano il lavoro alle poste”. Ora, io mi rendo conto che le sue considerazioni sono manchevoli di argomentazione e non ci sono neanche le basi per un confronto, ma una parte di me si è sentita infinitamente grata per quello sproloquio. Perché?
Perché mi ha riportato a esattamente un anno fa, quando il potere globalizzante e totalizzante delle piattaforme social, per associazione di valori e interessi guidati dall’algoritmo, mi ha fatto scoprire un’attivista politica, femminista, scrittrice e terrona di nome Claudia Fauzia. Dopo una laurea in economia, esperienze di attivismo in Colombia e studi di genere a Bologna, Claudia ha intrapreso un percorso che incastra femminismo, antimeridionalismo e giustizia sociale, da cui deriva il concetto di “femminismo terrone”. Quel termine denigratorio in particolare lo riprende, e ce lo riprendiamo, per affermare orgoglio, appartenenza e comunità. A morte gli stereotipi. Ma esattamente come?
Claudia Fauzia e Valentina Amenta lo spiegano con estrema lucidità nel loro libro-manifesto “Femminismo Terrone. Per un’alleanza dei margini“, il quale rimane una delle letture più edificanti del mio orrorifico 2024. Ho intervistato Claudia Fauzia per voi. Prestate attenzione!
Ciao Claudia, innanzitutto grazie per questa intervista. Inizio chiedendoti come descriveresti il concetto di North Gaze in relazione alle esperienze di chi, come me, vive la condizione di migrante italiana nel Regno Unito. Quanto lo sguardo del Nord europeo incide sulla nostra percezione di identità e come possiamo resistere e valorizzare le nostre origini in un contesto che spesso ci misura con degli standard a noi estranei?
Il concetto di North Gaze, contenuto in Femminismo terrone. Per un’alleanza dei margini, è ispirato al concetto di Male Gaze di Laura Mulvey: lo sguardo maschile, o forse meglio maschilista, che, dall’apice della gerarchia sociale, si arroga il diritto di rappresentare, stereotipizzare e oggettivare i corpi le soggettività subalterne, soprattutto quelle delle donne.
Allo stesso modo, lo sguardo del Nord, dal Nord Italia verso il Sud e dal Nord Europa verso i paesi chiamati significativamente PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna), si accompagna a pregiudizi legati a arretratezza, inefficienza e corruzione dei posti e delle persone che li abitano. Nel momento in cui si è un migrante che da Sud si sposta a Nord, si incappa in una visione unidimensionale della propria identità, si viene raccontati soltanto in un modo, ovvero come le persone arretrate che vengono a cercare fortuna altrove, delle persone che non hanno una storia per esempio di militanza, una storia di innovazione, una storia di ingegno, una storia anche di resistenza.
Come afferma Chimamanda Ngozi Adichie, l’unico modo per sconfiggere le “storie uniche” è raccontarne altre. Il femminismo terrone promuove la moltiplicazione delle storie, degli sguardi e delle rappresentazioni, affinché la narrazione del Nord non sia l’unica possibile.
Nel libro si sottolinea come la marginalità possa offrire una prospettiva radicale per immaginare alternative alle logiche patriarcali. Come questa idea ha influenzato la tua vita personale e politica e in che modo può diventare un punto di forza per chi vive in una condizione di subalternità?
Il concetto di marginalità come punto di partenza per una prospettiva radicale viene dalle teorie di Bell Hooks che afferma che il margine è un luogo radicale di possibilità e le persone che stanno ai margini sono le uniche in grado di sfidare e trasformare le strutture di potere. Ora questo non è tanto diverso da quello che ha concettualizzato un sociologo pugliese che si chiama Franco Cassano quando ha scritto il pensiero meridiano, che ha concettualizzato nuovo modo di pensare che parta da sud, una cosa assurda da immaginare per tantissime persone.
Quello che sostiene Cassano è che questo pensiero può essere quello veramente radicale, capace di rispondere ai problemi della nostra contemporaneità, quello realmente innovativo. Nella mia esperienza personale sento di aver incarnato il concetto di marginalità e di pensiero meridiano quando, dopo tanti anni vissuti altrove, al nord Italia e all’estero, ho deciso di far ritorno in Sicilia, da donna queer meridionale. Sono tornata in Sicilia per due ragioni essenzialmente, ovvero per avere la possibilità di raccontare il sud in modo diverso sia agli stessi abitanti del sud che hanno interiorizzato una certa discriminazione verso loro stessi, sia soprattutto al nord Italia e al nord Europa.
E volevo raccontarlo anche al femminismo che molto spesso si dimentica ci sono tante persone che stanno ai margini, anche ai margini di un’Europa, che hanno delle storie da raccontare, delle testimonianze di resistenza e delle esigenze particolari. La marginalità è un punto di forza nel momento in cui si è in grado di guardare le cose in modo diverso, di sconfiggere quella narrazione egemone e dominante per poter offrire una prospettiva inedita delle cose.
Ecco, questa secondo me è una grande ricchezza che dovremmo conservare.
Il femminismo terrone propone un’alleanza fra i sud di Europa e gli altri sud del mondo. Quali strategie ritieni più efficaci per costruire questa rete di connessioni globali? E quale ruolo può giocare la diaspora mediterranea in questa lotta, considerando che molti di noi vivono proprio nei centri del potere che cercano di sovvertire?
Sì, il femminismo terrone, tra l’altro come sottolineato nel sottotitolo del libro, propone un’alleanza dei margini, che noi chiamiamo anche alleanza dei sud. Sud in senso politico ma anche in senso geografico, è un’alleanza dei sud Europa e dei sud del mondo, che significa riuscire a trovare un punto di convergenza politica che però si basi su un approccio intersezionale, quindi che possa tenere in considerazione le differenze tra i vari sud dal punto di vista economico, sociale, politico, razziale, di classe, e che possa fare da base per costruire un vero movimento.
Le strategie per fare questo sono tantissime e io che ho deciso di abitare il mondo dei social vedo come importante il riuscire a raccontarsi attraverso i mezzi globali di comunicazione, raccontarsi tra di noi, raccontarci agli altri o costruire nuove narrazioni. Una seconda strategia che vedo impellente e molto importante è quella di creare delle collaborazioni fra associazioni femministe che esistono nei sud del mondo e che sono quindi collaborazioni fra gruppi che hanno iniziato una riflessione nei loro territori e che hanno desiderio di confrontarsi e di condividerla, ma anche solidarietà fra singole persone che si impegnano nell’attivismo, che fanno questo nella loro vita e che possono dare visibilità e linfa a questi movimenti.
Per quanto riguarda la diaspora meridionale, chi vive al di fuori dei suoi contesti ha una prospettiva “da fuori” che è sempre illuminante e poi ha la possibilità di costruire dei ponti tra il sud e il centro, tra i margini e il centro del potere, tra il sud e il nord.
Il libro sottolinea l’importanza di riconoscere l’antimeridionalismo come asse di oppressione intersezionale. In che modo il femminismo terrone può sfidare gli stereotipi sulla passività meridionale e invece valorizzare le lotte locali come parte integrante della produzione di sapere politico e femminista?
Secondo me l’antimeridionalismo non va concepito soltanto come la discriminazione nei confronti delle persone meridionali interna all’Italia, ma se lo applichiamo al contesto europeo, allora è la discriminazione e la sedimentazione degli stereotipi nei confronti del sud Europa da parte del nord Europa. Ma questo non è ancora sufficiente, perché per essere veramente efficace questo antimeridionalismo deve essere inteso come una una discriminazione di matrice coloniale e quindi il femminismo vuole fare essenzialmente questo, sfidare l’antimeridionalismo contrastando un sistema di dominio coloniale e patriarcale che opera a livello globale.
Se ci fermiamo però all’antimeridionalismo italiano, alcuni stereotipi come quello della passività possono essere contrastati dalla moltiplicazione dello sguardo e delle storie. Noi nell’ultima parte del libro l’abbiamo fatto ampiamente, abbiamo raccontato tante di storie, pensate per esempio che il movimento queer in Italia, quello che poi si è tramutato nell’Arcigay ed è partito proprio da Palermo, in Sicilia. Sono tante le storie di resistenza al fascismo che partono da sud che sono state poco o mal raccontate. Esiste un’altra intersezione che è veramente poco esplorata ed è quella fra la queerness, il femminismo e l’antimafia che è molto potente nei nostri contesti ma che viene impropriamente o poco studiata.
Hai parlato della restanza come atto politico e di cura verso i territori e le comunità del sud. Quali sono, secondo te, le sfide più grandi di questa scelta e come possiamo integrarla in una narrazione più ampia che parli anche a chi ha lasciato il sud?
Il concetto di restanza, così come lo ha descritto Vito Teti, è un atto politico e implica riprendersi i luoghi e le comunità del sud contro uno spopolamento incessante e storico. E lo si fa sulla base di due principi.
Il primo è la cura collettiva e quindi la comunità del sud, il secondo è il legame profondo che gli individui hanno col territorio che abitano. Ovviamente una delle sfide più grandi della restanza è la forza centrifuga delle immigrazioni e quindi l’esigenza economica, prima di tutto, e sociale che si ha nell’emigrare. Per cercare opportunità, per cercare un futuro migliore, andiamo via, guardando al sud come un posto che non ha redenzione, che sempre vuole a sé stesso, che non può cambiare, dove non possiamo vivere, creare comunità e fare politica. Il primo passo della restanza è proprio guardare a quei luoghi in modo diverso, come dei luoghi di possibilità, luoghi di resistenza, luoghi in cui è possibile costruire un futuro.
Nonostante ciò, dal mio punto di vista è impellente, indispensabile invertire il processo della diaspora. È necessario che le persone trovino le possibilità, le opportunità per tornare a vivere questi luoghi e tornare a far vivere questi luoghi.
In che modo la lingua, il dialetto e le parole in generale che scegliamo possono influenzare la rappresentazione di un territorio e la percezione di chi lo abita? Come possiamo utilizzare questi strumenti proprio per promuovere una memoria e una narrazione che sfidino l’egemonia culturale e restituiscano però nell’immaginario collettivo dignità e complessità al meridione?
In Italia le lingue regionali dette altrimenti dialetti sono considerate le lingue di serie B, ma non soltanto. Sono considerate le lingue parlate da cittadini di serie B, e questo per ragioni storiche legate anche al classismo. Infatti non tutte le lingue regionali sono percepite allo stesso modo. Le lingue regionali del sud sono percepite come lingue di popolazioni rozze, ignoranti e barbare. Questo perché il sud è sempre stato più povero, quindi effettivamente le persone che non parlavano italiano erano quelle più ignoranti. Oggi non è così, e la lingua dovrebbe essere ricchezza, però facciamo fatica a scardinare alcuni pregiudizi. L’uso delle lingue regionali e dialettali serve anche per sfidare le narrazioni fasciste, perché l’Italia si è raccontata come un paese, un popolo unitario, uguale, che parla una sola lingua.
Eppure è tutto il contrario, l’Italia è un popolo ed è un paese in cui si parlano tantissime lingue, e tutte le lingue sono necessarie per interpretare al meglio i luoghi e la cultura delle popolazioni che lo parlano. Quindi dovrebbe essere una fonte incredibile di ricchezza, eppure ancora oggi facciamo un po’ di fatica a fare uscire le lingue dei pregiudizi e a fare entrare le lingue regionali nell’ambito della politica e dell’attivismo femminista. Questo è un ambito in cui mi impegno molto, il mio femminismo parla 100% siciliano.