Mario Merz a 100 anni dalla sua nascita: l’eredità del maestro degli igloo

Il 2025 si è aperto con il centenario della nascita di Mario Merz, ritenuto dal curatore Harald Szeemann il rappresentante dell’“ultima generazione di visionari, solitari e nomadi che crea dal caos, considerando la pulsione interiore come criterio primario” di una produzione che è la sintesi tra l’istinto della mente e l’intuizione della manualità. Per ripercorrere la poetica e l’arte di questo grande artista e fare il punto sulla sua eredità, Fondazione Merz di Torino ha inaugurato durante Artissima 2024 la mostra Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola, arricchita – nelle giornate del 14 e 15 gennaio 2025 – dal simposio Libertà di avere tre idee contrastanti. Con la consapevolezza che “con la morte di Mario Merz anche il modo di accostarsi alla sua opera è sostanzialmente cambiato”, come scritto da Dieter Schwarz nel 2005, non bisogna smettere di interrogarsi su come continuare ad avvicinare, interpellare, esporre il suo lavoro.

Gli appassionati e preziosi interventi delle due giornate di studio e le opere in mostra (secondo allestimento della precedente esposizione Qualcosa che toglie il peso, 8 luglio – 6 ottobre 2024) restituiscono in tutta la sua potenza l’arte flessibile ed energicamente metamorfica di Merz, una pratica aperta e fluida, che cresce e si modifica, vive nello spazio (espositivo o naturale che sia) e determina il suo definirsi. La citazione che ha dato il titolo alla mostra verbalizza la necessità di Merz di confrontarsi con la natura, il suo scorrere del tempo e il proliferare dei numeri al fine di raggiungere un senso di leggerezza concettuale e al contempo favolistico.

Mario Merz Qualcosa che toglie il peso veduta della mostra Courtesy Fondazione Merz

Ulteriore riferimento curatoriale e progettuale sono gli studi dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, secondo il quale, al fine di avvicinarsi al nocciolo del pensiero umano, bisogna individuarne una natura profonda costituita da leggi, strutture mentali che si perpetuano inalterate e imperturbate di fronte allo scorrere del tempo. Tra teoria e pratica c’è continuità, un fluire dell’una nell’altra che dà forma agli igloo, alle opere pittoriche e ai tavoli. L’attenzione del visitatore che si muove tra le sale è catalizzata su una meraviglia dell’ordinario, su ciò che usualmente passa sottotraccia, sulla radice eterna che permane sotto una forma cangiante. Il lavoro dell’artista è stato a lungo teso verso ricerca di una forma compresa solo nel divenire, rappresentazione del flusso della vita valorizzata dalle potenzialità dei materiali, che si moltiplicano quando sono accostati tra loro. 

Il lavoro con il materiale raggiunge il proprio apice con gli igloo, in mostra in tre versioni, ognuna delle quali si staglia nella propria individualità e specificità simbolica e poetica e al contempo istituisce un dialogo con le altre: “La forma dell’igloo poteva essere raddoppiata, giustapposta o incastrata, le pareti potevano essere attraversate da altri materiali, le parole e i numeri potevano ricoprirne la superficie, ma la forma rimaneva sempre quella”, l’igloo appare così sempre nuovo e sempre uguale.

Mario Merz Qualcosa che toglie il peso veduta della mostra Courtesy Fondazione Merz

Gli igloo sfuggono a una logica utilitaria per prediligerne una visionaria; il quotidiano, in tutto ciò, funge da elemento di speranza e non comporta malinconico ripiegarsi sul passato. L’igloo si fa ambiente, modo di vivere, minima unità di misura e il tema dell’abitare si impone in tutta la sua rilevanza sociale e politica. I tavoli, sempre stati per Merz strutture primarie in grado di rispondere a bisogni essenziali di sostentamento, sono anch’essi luoghi in cui affondano le radici del vivere collettivo e dell’accoglienza e creano occasioni di scambio, incontro e convivialità, di discussione politica. Merz, già nel Sessantotto, con i suoi Object cache-toi annunciava la fine dell’era della merce e l’avvento dell’epoca in cui privilegiare l’essere sull’avere e il vivere in comunione, abitando tavolate conviviali e altri luoghi di rivoluzione del sé.

Mario Merz Qualcosa che toglie il peso veduta della mostra Courtesy Fondazione Merz

Anche lo spazio espositivo dev’essere abitato e, infatti, il mettere in mostra le opere di Merz non è mai una esposizione pura e fine a se stessa, bensì un riflettere sull’esposizione che diventa a sua volta opera d’arte. Merz, in questo senso, è stato definito un vero e proprio maestro dell’incorporazione del reale e dello spazio espositivo nelle sue opere, con la mostra che si trasforma in territorio di enunciazione artistica. Proprio nel momento espositivo l’opera muta e viene caricata di energia e resa portatrice del proprio significato e valore: Merz selezionava forme già esistenti per creare relazioni, nuove situazioni con lavori che sono esperienze e modi di vivere e pensare il mondo. Rimane al centro l’abitare gli spazi, i tavoli, le mostre, tutti da vivificare con la propria appassionata presenza, tenendo fede al concetto dell’“abitare poeticamente” di cui ha scritto Hölderlin e che è stato approfondito da Heidegger: “«Abitare poeticamente» significa […] essere toccati dalla vicinanza essenziale delle cose”.

Riprendendo nuovamente le parole di Schwarz, nell’esporre retrospettivamente le opere di Merz e creare momenti di studio e analisi di esse – come la mostra in corso e le due giornate di simposio –, “è opportuno ricordare che il nostro compito non è raccontare la vita di Merz, ma imparare a comprenderne il lavoro” e continuare a fargli prendere vita nella riflessione, nella discussione e nella condivisione. 

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