“Sahara”, la rivolta di Medhat Shafik

Nato a El Badari in Egitto nel 1956, Shafik dal 1976 vive in Italia. La sua ricerca gli valse nel 1995, il Leone d’Oro alle Nazioni alla Biennale di Venezia. “Sahara” è il nuovo ciclo di opere che compongono la personale di Medhat Shafik in corso da Marcorossi Artecontemporanea a Milano e parallelamente a Torino, a Verona, e ora anche a Pietrasanta.

Nelle opere di Shafik lo sguardo dell’artista è alto e per nulla assuefatto all’appiattimento del razionalismo. Medhat non ha paura della contaminazione delle civiltà. Il suo è un invito ad esplorare, a conoscere le culture che si incontrano durante il cammino. La metafora del suo viaggio è il non luogo a cui tuttavia si tende, spinti dal desiderio di vedere oltre il nostro comune orizzonte per scoprire nuovi modi di leggere il mondo. Apprendere oltre le convenzioni è la sua lezione, e ci chiede di imparare a ritrovare il senso della pietas, come la intendevano i romani.

Medhat Shafik I luoghi dellacqua courtesy Marcorossi Artecontemporanea

Il suo lavoro è una fuga dalla nostra ignoranza, dalla paura dell’ignoto. Il barbaro temuto ed allo stesso tempo atteso che ci costringe ad uscire, ci invita a confrontarci con la ricchezza della diversità, a sostare nei luoghi e a coglierne l’essenza, a ritrovare le antiche civiltà egizie, il piacere dell’ellenismo alessandrino, in cui hanno avuto inizio la sua formazione e la sua cultura. Da cui è fiorito il ragazzo che guardava il mare per raccontare al mondo la sua avventura. 

Lo abbiamo incontrato in occasione della sua nuova personale, e gli abbiamo chiesto di raccontarci, in questa intervista esclusiva, il suo viaggio.

Medhat Shafik

Medhat, tu sei nato in Egitto, ma vivi in Italia da tantissimi anni, quanto incidono le tue origini e quanto la cultura italiana nel tuo lavoro?

Avevo vent’anni quando sono arrivato in Italia, e avevo già una bella formazione, i miei interessi spaziavano dalla pittura, alla scultura, al teatro e alla musica perché a Il Cairo avevo frequentato un liceo sperimentale. Insomma, avevo letto molto, moltissimo sul teatro internazionale e quindi avevo già avuto accesso alla cultura occidentale e al linguaggio della modernità. Ero come una spugna che assorbe, cercavo di appropriarmi del linguaggio espressivo della contemporaneità dell’arte e delle avanguardie storiche, per raccontare, in fondo, una storia, la mia storia che è aperta al mondo e allo scambio.

Nel tuo lavoro, infatti, si percepisce una sorta di alchimia che vuole in qualche modo plasmare, rimodellare la tua memoria con il tuo presente. Sei d’accordo?

Mi piace molto questa definizione che hai dato, un mio collezionista ha definito il mio lavoro magnetico, e sì, è un insieme di significati che è in fondo il senso poetico della vita. Tutto ciò che cerco è di dar senso alla vita, all’attimo, a questa folgorazione che è l’esistenza che è bellissima e miracolosa. Basta fermarsi in silenzio e guardare la natura, questo grande dono, che bisogna apprezzare in ogni secondo, in ogni attimo. E questo purtroppo manca, perché siamo bersagliati da una infinità di dati. Le persone galleggiano nello spazio della comunicazione, e si sentono persi, e non hanno tempo di fermarsi per riflettere e creare sintesi.

Medhat Shafik Installation view courtesy Marcorossi Artecontemporanea

Definiresti la tua pittura una ricerca spirituale?

È il perno del mio lavoro, io sono un uomo laico, però la ricerca è il senso della vita, il senso magico e il pensiero alto. È quello che ci spinge a continuare, la ricerca del senso sacro, dell’esistenza, della magia, del miracolo del creato e dell’attimo. Tutto questo è legato alla spiritualità, è la ricerca di sé, dell’espansione dell’essere. La ricerca dell’uomo di amalgamarsi con il cosmo, di compenetrarsi con l’infinito, di navigare nella vita.

Il viaggio dell’uomo è il tema principale delle tue opere, ma l’ispirazione dei tuoi lavori dove nasce?

Io amo molto indagare la storia. Vedo nella storia la profondità, il peso specifico degli uomini, delle civiltà, cioè, la profondità dalla quale si attinge. Quindi il mio è un viaggio metastorico ecco il mio amore per le storie, per la grande narrazione, sia piccola, sia quella ampia del mondo.

La mia ricerca penso che sia quasi una riflessione, ma non è niente di nuovo, è epica. Ulisse, in fondo, rappresenta ognuno di noi, che indaghiamo o cerchiamo di guardare a ritroso, a volare sulla storia e sullo spirito del mondo, a cercare senso, verità, racconti, spessore, bellezza, e civiltà.

Ma soprattutto cerco me stesso, anche quando viaggio con i miei cari e vedo cose nuove la mente mi riporta sempre ai miei ricordi, sono a Genova e sento la nostalgia di Alessandria d’Egitto. E come se cercassi di non sentirmi straniero in nessun luogo, non sono lo “straniero” di Camus, voglio sentirmi a casa, anche fuori dal luogo dove sono nato, voglio vivere appieno sia i luoghi che le persone, rispettandoli.

Medhat Shafik Installation view courtesy Marcorossi Artecontemporanea

Molto spesso  usi per le tue opere materiali di riuso, ridai una nuova vita alle cose, perché?

Mi piace cercare l’anima del mondo nelle cose, la memoria degli elementi, degli oggetti, persi nella diaspora del mondo,  per potergli dare una dignità, un nuovo racconto. Trovo un pezzo di terracotta sulla battigia del mare e per me quel frammento  di terracotta, o di vetro o di legno è come se avesse fatto un viaggio infinito, nella mia fantasia era  una bottiglia, proveniente da Agadir, o da un tempio lontano.

Sono un archeologo dell’impossibile cerco di ricompattare gli oggetti per ricreare una completezza, con quel senso di nostalgia che accompagna i ricordi, la dolce malinconia che crea la vividezza, il valore, la poesia della vita.

In alcuni tuoi lavori si percepisce l’horror vacui, la necessità di riempire gli spazi, ma è solo un vuoto fisico?

È un volere esprimere quella che è mia provenienza, il mio lievito, il mio sale, il mio liquido amniotico è la civiltà egizia, con tutte le sue contaminazioni. Vengo da un contesto che ha sussurri, ha un clangore, è una civiltà sontuosa, sono nato nella valle del Nilo, un luogo facile e pacifico, dove le cose si stratificano, si sedimentano, dove i rapporti sono aperti. È un luogo dove sono i commerci e i movimenti il sale della vita, dove non si dorme mai, i mercati sono sempre aperti e a qualsiasi ora trovi gente per la strada. Credo sia nostalgia di quel mio vissuto, di posti dove ti sembra sempre di essere in mezzo ad una festa.

Medhat Shafik Storie di confini courtesy Marcorossi Artecontemporanea

La tua ultima mostra da Marcorossi Artecontemporanea, si intitola  “Sahara”, nel deserto tutto si azzera e l’uomo si ritrova con la propria fragilità, è questo che volevi comunicare, la nostra fragilità come esseri umani?

Esatto! È una metafora della vita odierna, mi è venuto in mente il Viandante su un mare di nebbia di Caspar David Friedrich che è poi diventato il manifesto del romanticismo, quest’uomo davanti a un mare di nebbia, che si affaccia da solo all’abisso del mondo. Come possiamo affrontare questa fragilità, con la tecnologia siamo diventati trasparenti, prevedibili, programmabili, sembrerebbe che questo ci permetta di essere in contatto col mondo, in realtà è un deserto c’è una grande solitudine dell’uomo in questo in questo scenario.

Nelle mie opere c’è un gesto di rivolta a tutto ciò, dinamico, irruento, come per spazzare via quella sabbia, per cercare bellezza, per cercare il colore come metafora della musica, della narrazione, della bellezza di vita, di etica, di tutto ciò che mancherebbe a una realtà contingente che è piena di variabili infinite e che ci rende in pericolo.

Il senso del vivere è vacuo, allarmante. Ed ecco la mia ricerca della bellezza, del senso della vita, non voglio soccombere a questo grande progetto globale che vuole renderci piatti, tutti uguali.

Medhat Shafik Sahara courtesy Marcorossi Artecontemporanea

Medhat, vorrei farti un’ultima domanda, il mestiere dell’artista è un mestiere difficile, lo sappiamo, secondo te oggi ha senso scegliere di fare questo mestiere?

Sempre! Oggi, ieri, e domani. Le difficoltà  sono il sale e il lievito delle cose. L’artista è tutto un insieme, è legato alla poesia, alla coscienza civile, all’espressione dell’inconscio collettivo, alla ricerca del senso pieno della vita.

Quando creo un’installazione  è come se rendessi il mio inconscio trasparente, attraversabile, vivibile, comunicante con gli altri. L’arte è un linguaggio, guai se stessimo sempre in silenzio. L’espressione artistica  è la magia della vita, è come respirare, è la ricerca di bellezza, la bellezza in quanto equilibrio, armonia, rispetto degli altri e della natura, del mondo sincretico dell’esistenza, il senso sacro dell’esistere.

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