Saltburn: un’opera lacerante che non ha nulla da dire

Milan Kundera pensava che un romanzo non è una confessione dell’autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato. Alcune trappole sono più evidenti di altre, altre sono invisibili gabbie d’oro che cannibalizzano presente e futuro e l’evasione non è sempre una scelta di merito, ma un metodo replicante, una tensione al ritorno che rende l’evasione più un viaggio transitorio nel mondo, un viaggio tra (dis)simili senza la contingenza del reale. Saltburn è esattamente l’estatico esempio di questa esplorazione/trappola. Opera diretta da Emerald Fennell, che ha l’arguto coraggio di raccontare una storia meravigliosamente e sontuosamente vacua. 

Oliver Quick (Barry Keoghan) è un giovane studente di Oxford. Nel momento in cui mette piede nel campus incrocia con lo sguardo il bellissimo Felix Catton (Jacob Elordi), nobile rampollo la cui famiglia possiede addirittura un castello nella località di Saltburn. Oliver fa di tutto per ingraziarsi le attenzioni e l’amicizia di Felix, al punto che decidono di trascorrere l’estate insieme nella sua dimora aristocratica e sconfinata, occasione in cui conosce la sua famiglia nobile, eccentrica e non priva di ombre. 

Sesso e potere sono il centro di questa storia. Ci troviamo tra le pieghe di una storia torbida, che si può collocare a metà strada tra due pellicole che sembrano incrociare i temi e le atmosfere del film di Emerald Fennell, da Il talento di Mr. Replay a Parasite. Questo perché Saltburn è una storia di ossessione, di riappropriazione, una storia di privilegio e di opportunismo, di menzogna e vendetta. La regista dirige un’opera sontuosa e satura di un’estetica lussureggiante e lacerante. C’è un’opulenza volutamente esagerata, quasi grottesca che alla visione non è invitante ma respingente. Tutto è respingente in questa pellicola ed è proprio l’inganno maggiore della storia: invitarti a una festa da sogno che si trasforma in un incubo sgargiante. Ma la realtà è che Saltburn resta, nonostante la sua estetica paradossale e funzionale, un film che non ha nulla da dire. Saltburn è un’opera carica di erotismo, un erotismo tortuoso, oscuro, e non teme di osare e mostrare come i personaggi possono agire la propria sessualità. La regista sa essere abrasiva e sferzante quando indugia ed esalta i difetti di queste persone sfacciatamente ricche, facendole lentamente a pezzi una per una e rivelando come siano tutte guidate da bisogni primordiali. 

La regista di Promising Young Woman dirige un film alla deriva sul mondo irreale dei ricchi nobili, un mondo alienante, e alieno, distaccato dal resto dell’umanità. L’enorme tenuta di Saltburn sembra un luogo di morte, che si regge sui riti, sulle convenzioni, abitato da personaggi inquietanti, come i maggiordomi e gli stessi proprietari, che sopportano la loro deriva con i pettegolezzi, i silenzi, e una malvagia tensione al disprezzo per l’altro. 

Un thriller gotico che cerca in tutti i modi di proiettarsi verso l’anticlassimo, che vorrebbe essere satirico, cruciale, caustico, senza riuscirci mai, perché manca ogni tipo di dialettica, non c’è ragionamento, non ci sono i presupposti affinché possa minimamente criticare e invelenire il sentimento borghese, épater les bourgeois direbbe qualcuno. Allo stesso tempo tutti i personaggi hanno un enorme vuoto, sono solo maschere plumbee di ciò che un essere umano potrebbe o dovrebbe essere. Ebbene in questa sadica e continua festa fatta di champagne, vomito, sangue e vampiri con la paura della luce (del reale), è il costume in quanto genere a risolvere l’impasse narrativo, e tematico, del film; forse il primo film in costume ambientato nella nostra contemporaneità. 

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