Una nuova geologia sembra prendere possesso dello spazio. Essa non si sottrae alle leggi dell’esposizione del white cube, pur collocando all’interno nuove (con)formazioni che lo abitano. Ora presenze ruvide come la roccia, ora perfettamente levigate. Così come una vegetazione apparentemente immutata, eppure materia organica alla sua origine e per questo soggetta a modificazioni. Come il cactus di marmo, e la vegetazione marina di rame, ognuna con un suo peso specifico. Tuttavia, il rame ingannato dalla sinuosità formale delle piante acquatiche che interpreta, restituisce un’apparente leggerezza. Esili steli ingentiliti da fiori e foglie, organismi ramificati, o ancora piegati dal movimento dell’acqua (Rama, Pendula en aro, Ellisella), che appaiono in questo contesto, come fossili o contemporanee composizioni trasferite alle generazioni future.
Eleganti anatomie che si prendono la scena in cui Elena Damiani (1979, Lima) esplora un territorio naturale con un rigore quasi scientifico. Analizza i processi, i cambiamenti e le evoluzioni della crosta terreste, delle strutture esistite e esistenti, influenzata dalle sue origini che la collocano in una zona dell’emisfero interessante da un punto di vista geologico, il Perù; dalla sua formazione che attinge al rigore dell’architettura, e da una sensibilità naturale all’esplorazione.
L’artista con una raffinata capacità di produrre opere che sembrano lievitare nello spazio, nonostante il carico oggettivo, crea un’ambientazione affascinante in cui immergersi. Lavori prodotti per Weather Bodies fino all’8 marzo da Francesca Minini, di cui alcuni nuovissimi, che concludono il terzo episodio di un ciclo iniziato nel 2020. Prima a Lima, sua città di origine, al MAC Museum of Contemporary Art, poi a Stoccolma, alla Galerie Nordenhake.
La mostra indaga i processi che influenzano la materia organica e inorganica, e il tempo come fenomeno geologico e meteorologico, in cui i corpi ne subiscono il passaggio, manifestando capacità di adattamento e resistenza. Nella serie The Erratic Marbles le immagini di massi erratici di origine glaciale, soggetti a uno spostamento geografico e temporale, sono depositari della loro storia passata. Damiani attinge direttamente negli archivi digitali della rete, prelevando fotografie che poi monta su un fondale. L’opera è installata nella seconda sala della galleria e quindi non immediatamente disponibile allo spettatore, eppure è espressione e forse rappresentazione visiva del suo lavoro. Da un lato lo studio dei mutamenti (che siano naturali o antropici) di un pianeta, che ci accoglie in quanto ospiti. Dall’altra il gusto per un’estetica ricercata (tratto distintivo in tutta la sua produzione), giacché le immagini sono montate su stampe di libri di viaggio del Settecento e dell’Ottocento, che richiamano la texture dei massi. Una serie perfettamente coerente incorniciata in una quadreria, che ragiona tra l’essenzialità della pietra e il vezzo della decorazione, e che non tradisce forse, una ragione più complessa che si inserisce in una mimesi tra ciò che esiste in natura e ciò che l’uomo replica (o crea).
Presenze organiche come cactus e piante sottomarine sono cristallizzate nei corpi definiti esteriormente, e plasmati nella loro immobilità permanente, ma che in taluni casi, come con il rame, manifestano un’azione spontanea di ossidazione, e sono quindi ancora materia viva. Così come Black-Crested Saguaro l’algida scultura del cactus, che mostra la fragilità del delicatissimo materiale. Un marmo nero tipico della regione di Ancash nel Perù, scolpito a mano, con il fusto fissato nella pietra toscana, in cui la presenza di venature bianche evoca i processi delle piante, e la capacità di resistenza e adattamento, tanto più in un territorio desertico, come quello dell’Arizona da cui proviene. L’anatomia è un richiamo alle forme vegetali che hanno trovato fortuna come soggetti d’elezione nelle fotografie di Karl Blossfeldt (1865-1932), scultore prima di tutto, che utilizzava la fotografia come strumento didattico, sezionando la natura con il suo obiettivo, ingrandendo i dettagli e producendo un ventaglio di sagome austere spogliate da ogni ornamento.
Un’austerità che si ritrova nelle sculture e nelle installazioni di Damiani. La struttura lucida di bronzo di Mineral cell III sostiene lastre di pietre levigate e fissate da tasselli di ottone, evidenziando le loro texture naturali. Un’opera costituita da una varietà di marmo, quarzite e granito insieme al travertino, su cui restano le tracce delle trasformazioni evolutive della materia. Il travertino è scavato invece modellando rilievi montani, riflessi all’interno di una scatola con piastre di rame disposte obliquamente, in Unfoldings, che consente di guardare l’oggetto da diverse prospettive.
È ancora il travertino questa volta associato al rame, a comporre Poem, un’installazione a parete che simula i carotaggi utilizzati per studiare le rocce. La sua posizione rappresenta con un linguaggio diverso da quello testuale, la poesia To the Chief Musicien upon Nabla: A Tyndallic Ode, scritta da Clerk Maxwell (1831-1879), che oltre a essere fisico e matematico scozzese era anche un fine estimatore della poesia. Lo scarto tra i cilindri sui montanti fissati a parete, e lo spazio vuoto rappresenta quello delle parole e delle convezioni usate per comporre le frasi. Ma è anche sintesi e rivelazione di una narrazione geologica.
L’opera di Elena Damiani si rivela allo stesso modo, nell’ambiguità della materia, che seppur spesso inorganica pare documentare una vita in divenire. Attraverso le sue fogge bloccate nella solidità delle forme prodotte dal tempo (i materiali che recupera), oppure riprodotte nel linguaggio artistico. Memorie, in tutti i casi, che conservano ora tracce di una storia geologica passata, ora le incognite del presente.