In ogni artista convivono due entità, due alter ego che assorbono la creatività e l’umanità insite in uno stesso corpo: William Kentridge interpreta questo dualismo nella nuova serie Self Portrait As A Coffee Pot curata da Carolyn Christov-Bakargiev e visibile in streaming sulla piattaforma Mubi.
Lanciata in occasione del Toronto International Film Festival e proiettata alla sessantesima edizione della Biennale d’Arte di Venezia, l’opera multimediale interpreta e racconta la realtà dello studio d’artista in un momento storico come quello della pandemia di Covid 19, mostrandone potenzialità e limiti.
Inizialmente intitolata Studio light, incentrata dunque sulle mere dinamiche di studio, la serie segue il fluire dei pensieri e degli eventi sviluppandosi in una vera e propria narrazione condivisa, improvvisata e partecipata. Le condizioni imposte dall’isolamento forzato spingono Kentridge a sfidare la sua interiorità alla ricerca di un linguaggio visuale ed espressivo che restituisse la complessità delle tematiche trattate con estrema naturalezza e semplicità.
“Questi sono i frammenti che vengono lasciati fluttuare nello studio per poi riorganizzarsi, prima di essere rimandati nel mondo come disegno, come film, come storia”
Al contrario di quanto si possa immaginare, non esiste un copione dietro a ogni puntata e, a detta dello stesso regista, è la spontaneità a guidare stimolare la struttura del girato: l’immediatezza del disegno si incontra con l’intenzionalità dell’animazione e del montaggio mettendo in sequenza le fasi dell’atto creativo, dal pensiero primordiale alla sua materializzazione. Lo spazio dello studio si concede all’artista e al pubblico, scevro da connotazioni convenzionali, diventando cosí una terra contesa dall’immaginazione e dalla realtà; il disordine del tavolo di lavoro viene domato dall’onnipresente segno grafico, che detta il ritmo delle composizioni e della narrazione, mentre i dialoghi indagano l’essenza autobiografica, storica e politica del regista e della sua comunità.
“Ne ho discusso con me stesso. E questa, nata come una componente della serie, è diventata la forma dominante: è la mia voce che conversa con me stesso attraverso di essa”
L’autoritratto e la caffettiera citati nel titolo si possono associare a due macrotemi che emergono nella serie: l’introspezione e il doppio sé che ne deriva e la forma, a volte segno altre scultura. Lo sdoppiamento di Kentridge, sia visuale che psicologico, accompagna lo spettatore nell’esplorazione dell’identità dell’artista spesso divisa tra razionale e irrazionale, presente e passato, ricordi e obiettivi; sin dai primi episodi i dialoghi si declinano discussioni, interviste, battibecchi ora comici ora profondi, che oltre ad abituare il pubblico a una molteplicità e una contemporaneità corporea e psicologica, imbastisce le basi per approcciarsi all’universo sfaccettato dell’artista tramite l’estensione dell’artista stesso.
“L’intento del dialogo era proprio quello di cercare di cogliere il divario che tutti noi abbiamo”
La serie si ispira allo stile dei grandi pionieri della storia del cinema, tra cui Charlie Chaplin e Tziga Vertov, in cui la settima arte diventa strumento privilegiato e rivoluzionario per diffondere cultura, educazione e consapevolezza: in questo caso specifico William Kentridge trasforma un racconto autobiografico in un percorso introspettivo e retrospettivo mettendosi a nudo in un frammento storico inaspettato e incerto come quello della pandemia.
Originario di Johannesburg, William Kentridge elabora una pratica artistica frutto di contaminazioni linguistiche, dal disegno a carboncino, al montaggio delle sue creazioni in autentiche composizioni poetiche. La storia del suo Paese diventa campo di indagine e rivendicazione e trova nel codice visivo il suo portavoce: una semplice linea diventa dolore, movimento, presenza, integrandosi con panorami famigliari, personaggi storici, balli e canti autoctoni.
Una carriera che approccia dalla sua origine diverse discipline, dalle scienze politiche oggetto della sua formazione universitaria, al teatro che lo porta a lavorare come attore, regista e sceneggiatore in alcune produzioni della compagnia locale Junction Avenue; la scelta di non seguire una direzione univoca si riflette nella pratica artistica di Kentridge che mette al centro la reiterazione del gesto, che annuncia, cancella e ripropone il segno rivelando la natura dinamica di un progetto apparentemente statico. Self Portrait As A Coffee Pot riempie il vuoto che si crea tra l’ideale dell’artista e la concretezza dell’opera finita condividendo frammenti di caos e ispirazione in un format al confine tra il documentario e il reportage. Sul tavolo di lavoro non ci sono solo latte di inchiostro, caffettiere e sagome animate e scritte evocative, sulla scrivania ci sono William Kentridge uomo e William Kentridge artista in una dicotomia che convive nell’estro dell’atto creativo.