Speciale Barbieland n.1 | C’è chi dice no

Recensioni entusiaste, giudizi lusinghieri e apprezzamenti per la pellicola più chiacchierata dell’estate. Ma ci sono anche critiche, dubbi, perplessità. Ecco una carrellata di tutti i principali giudizi e le recensioni uscite su un film che sembra destinato a lasciare un segno duraturo nel nostro immaginario

Ha sfondato i botteghini, saltando in cima alle classifiche dei film più visti (vedi box) e diventando il tormentone dell’estate. Non solo conquistando, come c’era da aspettarsi, la rete (milioni di meme e di parodie, non ultima, in Italia, quella che vede il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nei panni di Barbie e Matteo Salvini in quelli di Ken), ma anche le riviste e i giornali più snob, i blog più intellettuali, con commenti positivi, se non entusiasti, da parte di buona parte dei critici cinematografici e dei giornalisti culturali di tutto il mondo. Soprattutto quelli più progressisti, che in molti casi sono rimasti conquistati dalla svolta “femminista” e antipatriarcale della bambola più citata e più famosa del mondo.

Da “Rolling Stones”, che ne ha parlato come del “blockbuster più sovversivo del XXI secolo”, che “ci fa venire le vertigini”, perché “affronta i temi di sessualizzazione, capitalismo, involuzione sociale, diritti umani e auto-empowerment con la scusa di un viaggio nella memoria che riattualizza il marchio”; al “New Yorker”, che ha parlato di un “potente paradosso che è fondamentale per le sue delizie effervescenti”, dotato di un “ritmo frenetico” che lo fa apparire come una specie di “cartone animato vivente” (“il film”, scrive l’influente magazine americano, “non prende in prestito ironicamente la cultura pop; la abbraccia con passione e in maniera diretta, al fine di trasformarla, e quindi trasformare il rapporto degli spettatori con essa e rendere quel rapporto attivo, critico, tutt’altro che nostalgico”).

Anche altri giornali storicamente “progressisti” si sono spellati le mani per applaudire il film diretto da Greta Gerwig, già attrice, sceneggiatrice e regista di pellicole indipendenti, e oggi definitivamente sdoganata come regina del cinema hollywoodiano. Primo fra tutti, un giornale da sempre orientato a sinistra e spesso critico verso i prodotti commerciali, “Libération”, che ne ha preso decisamente le difese: “Greta Gerwig”, scrive Sandra Onana sul quotidiano parigino, “aveva la missione quasi impossibile di rispolverare il banale giocattolo della Mattel. Nonostante un marketing francamente tirannico”, per “Libération” si tratta di “una scommessa vincente per questa satira affascinante che non si lascia divorare dai suoi paradossi” (aggiungendo, in una didascalia: “Barbie respira, canta, balla ogni giorno in una dolce estasi con l’aria di un perpetuo viaggio con l’MDMA”).

Così come una rivista patinata come “Marie Claire” ha scritto che il film, “accattivante e divertente, è già un cult”, mentre “GQ” nota come sia “un sollievo vedere che Greta Gerwig, passata dall’essere la beniamina del cinema indipendente americano a una regista acclamata di Hollywood, sia riuscita a mantenere ciò che rende il suo cinema eccentrico nel mezzo di una formidabile macchina commerciale”: “la sua Barbie”, conclude il magazine, “è un po’ tutto quello che ci aspettavamo: decisamente pop, ovviamente ironica e sorprendentemente angosciante”.

Anche Clarisse Loughrey su “The Indipendent”, altro quotidiano storicamente progressista, si lascia andare a un piccolo panegirico: “Barbie”, scrive, “è uno dei film mainstream più fantasiosi, immacolati e sorprendenti della storia recente – una testimonianza di ciò che può essere raggiunto anche nelle viscere più profonde del capitalismo. Sebbene sia impossibile per qualsiasi film in studio essere veramente sovversivo, specialmente quando la cultura del consumo ha preso piede nell’idea che l’autocoscienza fa bene agli affari, Barbie riesce a farla franca molto più di quanto si pensasse fosse possibile”. Mentre, per rimanere sempre in Inghilterra, il “Telegraph” scrive che il film è “profondamente bizzarro, concettualmente sfuggente e spesso esilarante”.

Anche la scrittrice americana Susan Faludi, premio Pulitzer e femminista di lungo corso, che è andata a vedere il film con una giornalista del “The New York Times”, lo commenta abbastanza positivamente, mettendone in luce i continui riferimenti con l’attualità e con le politiche reazionarie americane, soprattutto sotto l’amministrazione Trump, che hanno spesso rischiato di mettere in pericolo decine di anni di battaglie femministe per la parità e l’emancipazione; anche se, alla fine, la scrittrice conclude causticamente: “Quando inventeranno la Barbie Femminista Radicale, fatemelo sapere. Qualcuno”, si chiede ironicamente, “conosce la Barbie di Valerie Solanas?” (riferendosi all’attivista e femminista radicale, autrice di “Scum, Manifesto per l’eliminazione del maschio”, che nel 1968 sparò ad Andy Warhol, ndr).

Per concludere la carrellata di pareri positivi, persino “Famiglia Cristiana”, in Italia, per la penna di Micol Vallotto, scrive che “Greta Gerwig racconta le problematiche di cui la società attuale è imbevuta: la disparità di genere, la logica del patriarcato, il diritto di avere ambizioni ma anche quello di essere mediocri, il carico mentale che grava quasi sempre solo sulla donna, lo stereotipo dell’uomo medio insulso e anche un po’ stupido e, infine, anche la paura di confrontarsi con il tema naturale della morte… La Barbie di Gerwig è una Barbie sui generis, perché incarna al contempo lo stereotipo della perfezione e la tendenza (umana) a ricercare la verità: è la fusione ossimorica dell’ossessione per la bellezza esteriore e del lavorio interiore”.

Non tutti i pareri, però, sono positivi. Ecco, ad esempio, un altro giornale tradizionalmente progressista come “Le Monde”, farne una durissima stroncatura fin dal titolo (“Barbie, una bambola affogata nella parodia del kitsch”), accusando la massiccia campagna pubblicitaria nata per pubblicizzare il film di “rasentare la molestia”. Secondo la critica cinematografica del quotidiano, Murielle Joudet, il film è un rozzo tentativo di autoironia, che utilizza l’idea del “Girl Power” in maniera opportunistica, con un’enorme quantità di citazioni e riferimenti che strizzano l’occhio allo spettatore, facendogli credere di star vedendo qualcosa di interessante, al di fuori delle indicazioni e dei dettami della casa produttrice, ma che, in realtà, stanno semplicemente facendo il gioco dell’azienda. Dopotutto, scrive, questa è proprio l’ambizione del CEO di Mattel: “passare da un’azienda di giocattoli, che produce oggetti, a una società di proprietà intellettuale, che gestisce franchising“. Quindi, conclude, le scene possono essere di Gerwig, ma il quadro complessivo appartiene alla Mattel, che riesce a “salvare la sua spazzatura dall’assalto di critiche eccessivamente caustiche”.

Anche Peter Bradshaw dell’inglese “Guardian”, altro quotidiano progressista, fa una recensione tiepida, suggerendo che Barbie sia “un film bonario ma impacciato”, che è “occasionalmente molto divertente, ma a volte anche in qualche modo pudico e inibito”, e definendolo “un gigantesco spot pubblicitario di due ore”. Sempre in Inghilterra, il “Daily Mail” lo definisce “irregolare, sconnesso”, con una trama che “non ha un vero senso – e la mano morta dell’America corporativa pesa molto su di esso”, mentre il “Time” scrive che è “molto carino ma non molto profondo”.

Tra i giornali specializzati, se Devan Coggan di “Entertainment Weekly” scrive che “la regista ha creato un’avventura feroce, divertente e profondamente femminista che ti sfida a ridere e piangere, anche se sei fatta di plastica”, e il magazine cinematografico “Empire” lo definisce da parte sua “dolorosamente divertente”, Lovia Gyarkye dell’ “Hollywood Reporter” è invece più critica, scrivendo che “la politica confusa e l’atterraggio emotivo piatto di Barbie sono segni che l’immagine alla fine è al servizio di un brand”.

In Italia, invece, il magazine “Cineforum” scrive, per la firma di Pier Maria Bocchi, che, “nel suo pignolo abuso estetico, nella sua scrupolosità da carta da regalo, Barbie rischia di essere visto, elaborato e mandato a memoria come prova di forza mainstream capace di articolare temi di valore per tutti i gusti (ovvero: per tutti i palati, tutti gli sguardi, tutte le sensibilità). Livellando le asperità. Smussando gli angoli… il risultato è per natura piallato. Senza specificità. Senza nei”. Concludendo: “Finisce che Barbie si impegna così tanto per rivolgersi a tutti che non si rivolge in verità a nessuno”.

Giulio Alvigini La Barbie degli straccicourtesy Giulio Alvigini

L’ultima, e forse anche la più significativa recensione, oltre che la più dura di tutte, è invece quella pubblicata dalla scrittrice e intellettuale indiana Priyamvada Gopal, docente di letteratura postcoloniale dell’Università di Cambridge, che, sul magazine “Al Jazeera” – il più celebre network informativo del mondo arabo –, provocatoriamente afferma: “Barbie è femminista? Non per tutte le donne”. “Non dubito”, scrive la docente di Cambridge, “che gran parte delle decine di migliaia di persone accorse per vedere il film nella settimana di apertura si siano divertite moltissimo. Ci sono lustrini, spassosi numeri di danza, leziose allusioni ad altri film, attori protagonisti di bell’aspetto e rosa scintillante: ce n’è in abbondanza”. Ma – avverte Gopal – “nonostante tutte le affermazioni esagerate sulla sua natura sovversiva, persino rivoluzionaria, e nonostante tutta l’abbagliante diversità di Barbieland, il film ha molto poco da dire sulle altre oppressioni che si intrecciano con tutto ciò che il patriarcato provoca – discriminazione razziale, ingiustizia economica e climatica (l’ultima delle quali, bisogna ammetterlo, è un po’ difficile da combattere per una bambola fatta di plastica derivata da combustibili fossili)”, dal momento che “non mettere in discussione le più ampie strutture economiche e razziali – su cui è modellato tutto il patriarcato – all’interno delle quali vengono prese queste scelte, conduce a una sorta di vicolo cieco”. “Ciò che Barbie in definitiva offre è una visione leggermente satirica dei doppi standard di genere, dei consigli di amministrazione aziendali e dei ragazzi inclini a comportarsi male appena ne hanno la possibilità. Niente di terribile, ma anche niente di brillante – e un sacco di sorprendente stupidità”. Niente male per un film che sta compiendo il miracolo di sfondare i record di incassi globali, mettendo nel contempo in discussione le certezze acquisite in centinaia d’anni di cultura tradizionale maschile. Ma, bisogna ammetterlo, forse Priyamvada Gopal non ha poi tutti i torti.

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