ANDREA GALVANI: L’ARTISTA SCELTO DA DEUTSCHE BANK PER RAPPRESENTARE LA COLLEZIONE A FRIEZE NEW YORK
Ricerca e sperimentazione continua, un istinto nomade e selvaggio. Il suo lavoro, in continua crescita sui mercati internazionali, è entrato in imponenti collezioni, è stato esposto al Whitney Museum e ha preso parte a biennali in tutto il mondo. Nel 2017 il DMA Dallas Museum of Art lo ha acquistato per la collezione permanente e Deutsche Bank lo ha scelto per rappresentare la sua collezione a Frieze con uno spettacolare progetto site-specific che ha affascinato New York. L’arte secondo Andrea Galvani è un processo aperto e interdisciplinare, fatto di dedizione, onestà intellettuale e determinazione. Se ancora non lo conoscete è arrivato il momento di mettersi in pari.
1. Sei italiano di nascita ma vivi e lavori da molti anni tra Brooklyn e Mexico City. Perché questa scelta e cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia?
In realtà ho sempre viaggiato molto, in modi e tempi diversi. Nel periodo dell’università ho attraversato l’Europa in lungo e in largo con lo zaino in spalla, ho vissuto in Africa e nei Paesi Baschi. Non ho mai misurato il mondo e le esperienze per confini geografici o linguistici. Il mio trasferimento definitivo negli Stati Uniti è avvenuto una decina d’anni fa in concomitanza con la mia partecipazione a Location One Residency Program, un prestigioso programma di residenza internazionale che aveva allora come chief and senior artists Joan Jonas e Laurie Anderson. Sono seguite poi LMCC (Lower Manhattan Cultural Council) e la New York University e il lavoro con istituzioni e gallerie di New York. È stata quindi una scelta naturale, dettata dalle collaborazioni crescenti che sono nate e si sono sviluppate intorno al mio lavoro.
A Mexico City sono arrivato la prima volta invitato da una galleria per un progetto; avevo già viaggiato e lavorato molto in Centro e Sud America ma non ero mai stato in Messico. Mi sono immediatamente innamorato dell’energia “della città surrealista per eccellenza”, per usare le parole di André Breton, una città con grandi potenzialità, cosmopolita, densa di cultura e tradizione, collezioni straordinarie e la presenza di un tessuto contemporaneo forte e dinamico. Così diversa e allo stesso tempo geograficamente così vicina agli Stati Uniti, mi è sembrata da subito la città ideale per poter lavorare ed essere attivo anche nei gelidi e proibitivi mesi invernali quando New York è bloccata sotto metri di neve. Ho deciso quindi di prendere uno studio e passare un periodo di prova, da allora gli anni sono volati rapidamente, ho iniziato a collaborare con gallerie, laboratori, università e ho preso alcuni assistenti fissi in studio, per cui nonostante il mio lavoro mi porti sempre ed inevitabilmente a viaggiare molto e passare ancora diverso tempo a New York, Mexico City si è trasformata progressivamente in un’ importante base operativa per lo sviluppo dei miei progetti.
2. Sei tra gli artisti italiani meglio rappresentati a livello internazionale, a parte UK e Europa lavori con gallerie di New York, Città del Messico, Lima e Buenos Aires coprendo a ventaglio una larga parte del territorio geografico dell’America. Mi viene spontaneo chiederti se si respira un clima diverso tra Nord, Centro e Sud America? E se sì in cosa differiscono i gusti dei collezionisti e le modalità espressive degli artisti?
Sebbene il territorio e il sistema culturale e politico di appartenenza siano indiscutibilmente i primi contenitori in cui si sviluppa il pensiero e la ricerca di un artista (e l’istinto collezionistico), mai come oggi il sistema dell’arte internazionale è stato più aperto, stratificato e globale.
Credo non sia del tutto realistico ed efficace cercare di descrivere un sistema di gusto o la modalità espressiva di un artista nella sola relazione diretta e univoca ad un territorio geografico specifico. La tendenza a costruire dei recinti culturali in cui inserire, etichettare e mostrare arte per provenienza geografica (che ha creato e continua a creare grandi speculazioni di mercato), si dimostra oggi a mio avviso sempre più noiosa, inefficiente e spesso provinciale. Con sempre maggior frequenza le gallerie scelgono di costituire le loro scuderie con artisti la cui provenienza, formazione e linguaggi sono completamente differenti, diversificando e rafforzando allo stesso tempo un sistema di pensiero unico, una direzione concettuale comune.
Artisti, curatori, operatori internazionali e collezionisti viaggiano sempre più spesso da una parte all’altra del pianeta, come una grande tribù nomade che si mescola, si espande e cresce. Siano nati a Cuba, in Olanda, in India o a Roma, abbiano studiato a Londra, New York, o Santiago de Chile, vivano a Parigi o Berlino, si incontrano in una artist residency in Norvegia, ad un open studio a Miami o alla Biennale di São Paulo, volano a Los Angeles per un opening e poi pochi giorni dopo sono ad Art Basel Hong Kong…
In un panorama contemporaneo così vasto e aperto l’unicità, la riconoscibilità e la forza della ricerca di un artista si misurano a mio avviso proprio sulla sua capacità di evadere dai meccanismi territoriali, portandosi stretto in spalla il proprio bagaglio culturale, per metterlo però in dubbio, rinnovarlo, solidificarlo, espanderlo, in un nuovo e personale cammino.
3. Fiere e mercati: ritieni che oggi come oggi la qualità del lavoro di una galleria sia determinato dal numero e dalla qualità delle fiere di arte contemporanea a cui partecipa? Potresti indicarmi su quali mercati il tuo lavoro vende di più e attraverso quali modalità: se attraverso un progetto in galleria o nelle fiere?
Senza dubbio, la qualità della proposta, il numero di partecipazioni e la qualità delle fiere a cui una galleria partecipa sono fattori che influenzano di molto i risultati e bilanci di una galleria. Ma questa è una domanda che credo dovresti rivolgere direttamente alle gallerie che rappresentano il mio lavoro.
Ogni galleria dovrebbe di fatto essere un organismo vivo, un pianeta, che genera il suo campo gravitazionale. Alcune gallerie scelgono di investire molto sulla partecipazione alle più importanti fiere internazionali con ambiziosi progetti site-specific e solo show in fiera. Altre al contrario scelgono di ridurre al minimo le partecipazioni alle fiere, per investire molto su progetti in galleria, offrendo supporto per produzioni particolarmente complesse e spazi che permettono al lavoro di crescere. L’insieme di questi differenti modi di operare e delle diverse strutture che hanno accolto il mio lavoro in questi anni ha generato un solido mercato internazionale, con acquisti da parte di istituzioni, collezioni pubbliche e private che avvengono sia nelle fiere, che in galleria.
4. A quali e a quante fiere hai partecipato negli scorsi anni?
Dall’inizio della mia carriera la presenza del mio lavoro alle principali fiere internazionali è cresciuta in modo costante e progressivo. Negli ultimi cinque anni si è fatta davvero intesa, con un ritmo serrato di presenze spesso anche multiple, con progetti speciali, solo show o group shows con più gallerie e in più fiere contemporaneamente. Darti un elenco preciso e un numero di mie partecipazioni negli ultimi quindici anni di lavoro sarebbe lungo e inappropriato, ma posso dirti che solo nel 2017 il mio lavoro è stato presente a 15 fiere, tra cui Art Basel Miami Beach, Untitled Miami, Frieze New York, Zona Maco Mexico, Expo Chicago, Arco Madrid, ArtBo, ArtDubai, Artissima e altre.
5. Hai ricevuto moltissimi premi, le tue opere sono state acquisite da musei ed esposte in biennali in tutto il mondo. Che cosa avvalora un artista, facendolo crescere in termini di mercato?
Ciò che avvalora un artista è prima di tutto la qualità e la costanza della sua ricerca, la sua onestà intellettuale, la sua determinazione ed il suo ritmo.
6. Nella tua ricerca utilizzi in modo straordinariamente coerente diversi mezzi espressivi e spazi dalla fotografia alla scultura, dal disegno a grandi installazioni ambientali in cui convivono oggetti, neon, suoni, performance e video. Nel tuo lavoro i linguaggi sembrano davvero stratificarsi, assumendo nuove e interessanti forme. In che modo determini il mezzo con cui lavorare?
La mia pratica è fondamentalmente interdisciplinare. Si sviluppa da un epicentro concettuale che produce azioni o interventi la cui natura corrisponde agli ambienti di ricerca o ai linguaggi in cui viene generata. Ogni progetto è quindi sostanzialmente un processo aperto, in cui diverse discipline e metodologie partecipano alla sua estensione. Il rapporto con l’esperienza, lo sforzo fisico, il fallimento, i limiti del mezzo e del luogo, sono fattori determinanti nello sviluppo del mio lavoro.
7. Ti svelo un segreto. Come screen saver sul mio telefono ho una tua immagine (la mia preferita in assoluto) – Llevando una pepita de oro a la velocidad del sonido. Con questo progetto hai reso visibile la magnificenza di un fenomeno fisico della durata di pochi secondi. Hai volato più volte su caccia militari biposto seguendo i piloti in fase di addestramento di volo parallelo, documentando fotograficamente l’esatto istante i cui i gli aerei superano la barriera del suono. Mi puoi raccontare che cosa ti ha spinto a produrre questo progetto e cosa c’è oltre la barriera del suono?
A volte i limiti più grandi che ci circondano sono fisicamente piccolissimi o invisibili, sono territori psicologici, geografici o politici. Confini dalla natura fluida, mobile e intangibile. Strutture apparentemente semplici ma impenetrabili, distanze impercorribili, dimensioni sconosciute. L’ idea di estensione è il motore ed il centro di tutto questo corpo di lavori (The End Trilogy,2013 – 2017) che di fatto è un’indagine sui confini che distinguono e definiscono fisicità e l’immaterialità, visibilità e l’invisibilità, continuità e temporalità, vita e morte.
Quando ci si avvicina alla velocità sonica, i disturbi della pressione atmosferica producono onde d’urto molto violente – un pilota ti direbbe che l’aria stessa sembra farsi sempre più densa sino a solidificarsi. Al di là della “barriera del suono” c’è il silenzio. Un silenzio molto diverso da quello che possiamo sperimentare nel nostro quotidiano, un silenzio fisico e assoluto, dovuto dall’impossibilità delle onde acustiche di propagarsi nello spazio.
Prima dello sviluppo tecnico e aerodinamico che ha portato l’uomo a volare supersonico, moltissimi aerei sono stati distrutti nei primi tentativi di volare più velocemente della velocità del suono e per molti anni, gli ingegneri sembravano convinti che non fosse possibile produrre un mezzo in grado di resistere in volo all’intensità di queste condizioni, portando molti esperti a credere ingenuamente che esistesse davvero una barriera insormontabile in questo campo invisibile del suono.
In presenza di elevate percentuali di umidità nell’aria le onde d’urto oblique e le onde sonore circolari o onde di Mach, scoperte e nominate molti anni prima dal fisico tedesco Ernst Mach (1838-1916), divengono improvvisamente visibili e si manifestano come una geometria perfetta, un cono di nebbia e vapore che si concentra attorno alla fusoliera dei velivoli rendendo visibile per pochi secondi quello che nella storia di un innumerevole serie di incidenti l’aereonautica aveva definito come il “muro o barriera del suono”, proprio per la sua apparentemente invalicabile natura.
In Llevando un pepita de ora a la velocidad del sonido, gli aerei sono stati da me ripresi in volo al centro di un cielo vuoto, durante un cambio di stato, un transito tra due dimensioni. Sono congelati a 1300 km orari e letteralmente sospesi per sempre a metà tra il mondo dei suoni e il silenzio, sulla soglia di quel perturbante campo di forze fisiche.
8. Parlaci dei tuoi progetti attuali e futuri: collaborazioni, mostre, anticipazioni…
Il mio 2018 è partito con un programma fittissimo di appuntamenti e sto lavorando simultaneamente a diversi progetti. Ho da poco inaugurato una mostra al MACBA – Museo di Arte Contemporanea di Buenos Aires dove sto presentando una grande installazione audio site-specific sviluppata intorno all’architettura del museo e aperta al pubblico per un anno intero. Sarò poi in Texas al Dallas Art Fair questa settimana e in Belgio il 19 Aprile con un Solo Show a Art Brussels a cui farà seguito la presentazione e il launch di un libro d’artista prodotto da Mousse Publishing e distribuito a livello internazionale. Si tratta di una pubblicazione monografica a cui ho lavorato per diversi mesi e che raduna un’ampia selezione del lavoro di oltre quindici anni in un volume di quasi 500 pagine. Mi aspettano poi mostre personali a Lima, New York, Londra e Messico e un progetto speciale che sto sviluppando su invito di Art Basel City che si terrà nel mese di settembre. E’ un intervento che occuperà lo spazio di un hangar nel quartiere storico di Villa Crespo a Buenos Aires, ma di cui per il momento non posso anticipare di più.
Instagram / @andreagalavanistudio