“Io penso di fare dei lavori che tutti potrebbero fare, però che poi stranamente nessuno li fa. Lo faccio solo io” afferma Alighiero Boetti in un’intervista di Antonia Mulas nel 1984. Per i trent’anni dalla scomparsa dell’artista l’Accademia Nazionale di San Luca a Roma organizza la mostra Alighiero e Boetti. Raddoppiare dimezzando, a cura di Marco Tirelli, ideata insieme a Caterina Boetti, presidentessa della Fondazione Alighiero e Boetti. Ad ospitare l’esposizione sono gli spazi dell’Accademia: il Salone d’Onore, la Sala bianca, il porticato di Palazzo Carpegna, di fattura borrominiana, con un corpus di opere gravitanti attorno al tema della molteplicità identitaria, della copia, della scissione dell’unità.
Raddoppiare dimezzando è un’antologia di Boetti che accompagna il pubblico nella dimensione concettuale più affascinante per l’artista stesso: il doppio, la mimesi identitaria, l’investigazione dell’io a partire dalla sua moltiplicazione. Alighiero Boetti è un artista poliedrico, gravitante attorno all’arte povera, che tramite un concettualismo personalissimo invade campi eterogenei: geopolitica, dimensione del doppio esistenziale e concettuale, classificazioni, rappresentazioni sequenziali, alfabeti, scritture esistenti e immaginate, ordine e disordine. Tutto ciò arricchisce l’intricato pattern esistenziale e creativo che anima l’artista torinese, che dal 1971 non è più solo Alighiero Boetti, ma diviene Alighiero e Boetti.
Alighiero Boetti (1940 – 1994) nasce a Torino nel 1940, da una famiglia aristocratica. Prima di approdare alla dimensione artistica si iscrive al corso di Economia e Commercio, che abbandona poco dopo. Gli stimoli culturali che fabbricano la sua architettura conoscitiva sono eterogenei; da autodidatta curioso esplora le opere di Cesare Pavese, Eugenio Montale, Thomas Mann, Herman Hesse. A diciassette anni è affascinato dalla gestualità di Wols, Fontana, Gorky, Rothko che osserva e studia alla Galleria Notizie di Luciano Pistoi. Il bisogno di investigazione del sé e del mondo lo avvicina al lirismo pittorico di Nicolas de Stael e all’espressione creativa e cromatica di Paul Klee.
È nel ’62 che si trasferisce a Parigi e vive le pulsioni culturali e artistiche dell’epoca, mediate dalle suggestioni di opere come quelle di Jean Fautrier e Dubuffet. Tra il 1963 e il 1965 sperimenta con materiali poveri – gesso, plexiglas, masonite – e realizza opere grafiche ad inchiostro di china ritraenti oggetti d’uso quotidiano, appartenenti alla società contemporanea: lampade, cineprese, macchine fotografiche, bottiglie. Boetti comincia a frequentare numerose gallerie torinesi operanti sul fronte dell’avanguardia artistica contemporanea, in particolare quelle di Gian Enzo Sperone e Christian Stein, quest’ultima luogo di una personale, che segna il suo debutto nello scenario artistico nazionale il 19 gennaio 1967.
Le opere che lo presentano al mondo dell’arte sono Lampada annuale che, realizzata nel ’66, si accende una volta l’anno per 11 secondi di luminosità e poi cessa per altrettanto tempo; Catasta, Tubi, Zig Zag, Sedia. L’arte è nell’idea, nella potenzialità dell’azione. “Il sapere d’innumerevoli eventi che succedono senza la nostra partecipazione e conoscenza […] mi ha portato a fare la lampada annuale quale espressione teorico-astratta di uno degli infiniti avvenimenti possibili, l’espressione non dell’avvenimento ma dell’idea dell’avvenimento” dichiara Boetti. Dopo la prima mostra alla Galleria Stein, partecipa alle collettive che segnano la nascita dell’Arte Povera, sancendone l’adesione attraverso il suo Manifesto, datato 1967 in cui i nomi di sedici artisti italiani, sono combinati con otto simboli, la cui chiave interpretativa è codificata dall’artista soltanto. La manifestazione autunnale nel ’68 ad Amalfi “Arte Povera più azioni povere” promossa da Marcello e Lia Rumma e curata da Germano Celant segna l’esasperazione della sua adesione all’Arte Povera e il suo conseguente allontanamento.
L’elaborazione del doppio del sé è il tema centrale dell’opera che Boetti presenta a Berna nel 1969 in occasione della mostra Live in your head. When attitudes become form, in cui si ritrae sdraiato accanto a un suo autoritratto in negativo su pietra. Questo lavoro introduce uno dei concetti chiave che caratterizzeranno la sua produzione futura: l’indagine della propria identità e la sua divisione in più entità complementari.
L’infinito vocabolario artistico di Boetti lo porta, nell’estate del 1970, a ritirarsi nella galleria di Franco Toselli per realizzare Estate 70: un’opera lunga 22 metri interamente ricoperta di bollini colorati autoadesivi, una sequenza che racchiude tutte le possibili combinazioni cromatiche. Nello stesso periodo, l’interesse per la serialità e la classificazione – elementi simili al metodo di Andy Warhol – lo conduce a catalogare i mille fiumi più lunghi del mondo, dando vita a opere che esplorano l’idea di enumerazione e ripetizione.
L’intento del raddoppiamento è evidente nella sua performance presentata per Identifications di Gerry Schum, dove Boetti compie un’azione simbolica e concettuale scrivendo con entrambe le mani in contemporanea, simboleggiando l’unità e la divisione in un gesto unico. A partire dagli anni Settanta, intraprende viaggi esistenziali e culturali, che lo conducono in luoghi come Guatemala, Oriente e soprattutto Afghanistan. Qui, a Kabul, realizza il suo primo ricamo su tessuto, iniziando la serie degli arazzi realizzati da ricamatrici afgane, opere che rappresentano uno dei punti più alti della sua esplorazione dell’identità condivisa tra autore e artigiani. Affascinato dalla cultura e dalle tradizioni del luogo, vi torna più volte fino al 1979, sviluppando un profondo interesse per la geopolitica e le dinamiche interculturali, temi che lo portano a ideare le celebri Mappe, planisferi in cui ogni territorio è colorato con la propria bandiera nazionale.
Nel 1971, il tema dell’identità diventa centrale e si concretizza nella scelta di rinominarsi Alighiero e Boetti, evidenziando la dualità tra il sé personale e quello artistico. Questo sdoppiamento simbolico e linguistico è parte della sua visione filosofica: “Ho sempre lavorato sulla metà e il doppio, e l’unità mancante – che quella non c’è mai”, spiegava Boetti. Il nome “Alighiero” rappresenta per lui l’aspetto più intimo e famigliare, mentre “Boetti”, essendo un cognome, diventa un’astrazione, una proiezione concettuale.
Nel 1972, Boetti introduce la biro, strumento quotidiano dell’Occidente, per creare una serie di opere a inchiostro come Mettere al mondo il mondo. Parallelamente continua a sviluppare i ricami, spesso associando le stesse frasi in entrambe le serie, come “Dare tempo al tempo” e “Ordine e disordine”, espressioni che riflettono la sua ricerca di equilibrio e la complessità delle sue riflessioni filosofiche.
Attivo fino al 1994, anno della sua scomparsa, Boetti lascia un’eredità artistica complessa e ricca di contrasti, costruita su dualismi e sul potere creativo della contrapposizione. L’esposizione dell’Accademia Nazionale di San Luca si propone di esplorare questa complessità, adottando il principio stesso del suo modus operandi, ovvero “raddoppiare dimezzando”. Tra le opere più emblematiche, i celebri arazzi prodotti dalle ricamatrici afgane testimoniano l’interazione tra autorialità e delega, presenza e assenza, confermando il concetto di un’unità divisa in molteplici identità.
L’esposizione riflette su come Boetti abbia creato un’arte in costante evoluzione, capace di rompere le proprie regole per generare sempre nuove letture. Come afferma il curatore Marco Tirelli: “Boetti ha fondato una nuova e inaudita idea del classico, in cui il rigore, la norma, i modelli e le regole fossero sempre instabili, autogeneranti […]. Nessuna opera di Alighiero si esaurisce in sé stessa […] ma apre sempre a nuovo senso, ad altro da sé”. Tra colori, classificazioni e paradossi, Boetti affida allo spettatore «l’enorme potere» di completare la sua opera, rendendola una continua indagine sul significato universale dell’esperienza umana.