Cinque anni dopo il fotorealistico e ambizioso Il re leone di Jon Favreau, la savana torna a farsi scenario di intrighi e destini incrociati con Mufasa – Il re leone, un’opera che cerca di gettare luce sui giorni acerbi del sovrano leggendario. Diretto da Barry Jenkins, il film si colloca in un territorio ambiguo tra prequel e sequel, oscillando tra la nostalgia del passato e il tentativo di arricchire un’eredità cinematografica già monumentale. Ma siamo davvero di fronte a una nuova storia o a un’altra ripetizione dello stesso ruggito?
La narrazione si dipana sotto forma di racconto orale, affidato ai tre buffi custodi della memoria del branco – Rafiki, Timon e Pumbaa – che cercano di placare la curiosità di Kiara, la giovane figlia di Simba e Nala. Attraverso le loro parole, veniamo trasportati in un tempo remoto, quando Mufasa non era ancora il simbolo di saggezza che tutti conosciamo, ma un cucciolo disperso, strappato dalla furia di un fiume impetuoso e cresciuto lontano dai suoi. In questa lontananza, il giovane leone trova una famiglia adottiva, un alleato inaspettato nel fratello tormentato Taka e un mondo pieno di sfide che lo porteranno a forgiare il suo destino.
Eppure, dietro questo intreccio di formazione e conflitto, si cela un’ambizione visiva che continua a camminare sul filo del rasoio. Il fotorealismo, già celebrato nel precedente capitolo, qui si spinge oltre: i dettagli della savana sono di una bellezza quasi intimidatoria, un’opera di cesello che annulla il confine tra realtà e illusione. Ma questa perfezione tecnica, anziché amplificare l’esperienza emotiva, la raffredda. I leoni si muovono, ruggiscono e cantano, ma il loro volto è prigioniero di una staticità che smorza la magia dell’animazione. Laddove il disegno a mano del 1994 trasudava energia, qui tutto è trattenuto, come un quadro troppo levigato per essere vivo.
Barry Jenkins, regista di capolavori intimisti come Moonlight e Se la strada potesse parlare, si scontra con i limiti del blockbuster: le sue tematiche abituali – l’identità, l’emarginazione, il desiderio di riscatto – affiorano solo timidamente in una narrazione dominata da lealtà fraterne infrante e rivalità sentimentali. Il cuore della storia pulsa nella relazione tra Mufasa, Taka e la leonessa Sarabi, un triangolo emotivo che anticipa i conflitti futuri e getta ombre sulle dinamiche familiari. Tuttavia, i personaggi sembrano confinati in una gabbia narrativa che fatica a dare loro lo spazio necessario per respirare.
A peggiorare il quadro si aggiungono un montaggio disordinato, che alterna momenti frenetici a lungaggini ingiustificate e musiche che tradiscono il ricordo dell’indimenticabile colonna sonora originale. Anche il doppiaggio italiano fatica a reggere il confronto, con performance troppo spesso impersonali, a eccezione di un magistrale Luca Marinelli, che infonde profondità e gravitas al suo ruolo.
Mufasa – Il re leone si configura come un’operazione che cammina sul filo tra il necessario e il superfluo. Nonostante l’impegno produttivo e la regia solida, manca il senso di meraviglia che ha fatto grande il franchise. La savana, pur splendida, sembra più silenziosa e la storia di Mufasa è incapace di scuotere davvero il cuore dello spettatore.