Rebecca Horn è venuta a mancare lo scorso 6 settembre, all’età di 80 anni. Ad annunciarlo è stata la galleria Sean Kelly di New York, con la quale l’artista collaborava fin dagli anni ’90. Maestra e pioniera delle “estensioni corporali”, protesi che conferiscono al suo corpo forme surreali che prendono vita attraverso la performance art, Rebecca è rimasta attiva anche negli ultimi anni, partecipando anche alla Biennale di Venezia nel 2022.
Ma andiamo con ordine.
Rebecca nasce nel pieno secondo conflitto mondiale, in Germania, precisamente a Michelstadt, nel 1944. Cresciuta in un contesto segnato dalla guerra e dalla sua lunga scia di devastazione, Horn mostrò fin da giovane un interesse per l’arte, la poesia e la narrazione. Ha studiato alla Hochschule für Bildende Kunst di Amburgo dal 1964 al 1970, dove ha iniziato a sviluppare un linguaggio artistico influenzato da esperienze personali e da un desiderio di esplorare le possibilità espressive del corpo umano.
Solo un anno dopo, nel 1965, a causa di un grave avvelenamento ai polmoni dovuto al suo lavoro con materiali come la fibra di vetro avvenuto senza protezioni, Rebecca è costretta a lasciare l’Accademia. Segue un periodo oscuro per l’artista, segnato dalla morte dei genitori, dal forte trattamento antibiotico e dal lungo periodo di degenza in ospedale. Dopo l’isolamento, Rebecca inizia a creare opere d’arte utilizzando materiali più sicuri. Questo nuovo tipo di scultura è per lei il modo per sconfiggere la “solitudine comunicando attraverso le forme del corpo”.
Da ora in poi, Rebecca Horn prosegue il suo percorso con le estensioni corporali: sculture protesiche, prolungamenti di parti del corpo umano, costruite in balsa e tessuto, che conferiscono al corpo dell’artista forme inaspettate e surreali e che prendono vita attraverso la performance art. L’artista mette in atto, quindi, una profonda riflessione sul corpo in tutti i suoi aspetti.
Una delle più famose estensioni corporali dell’artista è sicuramente Einhorn (Unicorno).
Si tratta di un vestito-protesi composto da fasce di tessuto bianco che si prolungano in alto con un lungo corno, posizionato sulla testa di chi lo indossa. L’opera è utilizzata in una performance: è indossata da una donna che cammina in una campagna. Attraversando campi di spighe e sentieri in modo incerto, il corpo ibrido è costretto a trovare un nuovo baricentro. Le fasce orizzontali conferiscono sostegno e struttura al corpo femminile e ricordano quelle che imprigionarono per tutta la vita la pittrice Frida Kahlo. Le due artiste, infatti, hanno in comune proprio il trauma giovanile della sofferenza del corpo, che per entrambe ha rappresentato un punto di svolta e una presa di coscienza per le loro carriere artistiche.
Un’altra estensione corporale è Pencil Mask (Maschera di matite). Composta da sei cinghie orizzontali e tre verticali in cui sono inserite delle matite, conferiscono al corpo la possibilità di disegnare attraverso il movimento del capo.
Una funzione simile è attribuita all’opera Finger Gloves. Il titolo indica sia la performance che l’estensione corporale che ne costituisce il soggetto. Si tratta di guanti, in cui la forma delle è prolungata con strutture in balsa e tessuto, per permettere al performer di raggiungere punti e oggetti distanti nello spazio, toccandoli.
Una performance che è sicuramente ispirazione e anticipazione di figure grottesche e dolenti che popolano i film di Tim Burton, da Edward mani di forbice a La sposa cadavere: la stranezza fisica è utilizzata da entrambi gli artisti per esplorare il senso di alienazione e l’inquietudine dell’essere umano.
La sua ricerca artistica non si è fermata al corpo: negli anni successivi, Horn ha ampliato il suo orizzonte creativo esplorando la relazione tra uomo e macchina, ordine e caos, con opere come “Concert for Anarchy” (Concerto per Anarchia, 1990), un pianoforte sospeso che esplode in modo imprevedibile, e “Moon Mirror” (Specchio della Luna, 2011), un’installazione che invita a riflettere sul dialogo tra l’umano e il cosmico.
In occasione delle feste natalizie del 2002 e del capodanno del 2003, Antonio Bassolino, presidente della Regione Campania, decise di commissionare all’artista tedesca un’opera che sarebbe stata esposta in Piazza del Plebiscito a Napoli. Quest’opera era Spiriti di Madreperla: 333 teschi in ghisa posizionati nel selciato della piazza e 77 cerchi al neon sospesi come una sorta di aureole, fortemente in contrasto. Per quanto riguarda i teschi, l’artista afferma di essersi ispirata al celebre Cimitero delle Fontanelle di Napoli.
L’opera, che scatenò diverse reazioni nella popolazione locale e anche nei turisti, fu poi rimossa a fine gennaio dello stesso anno. Alcuni teschi oggi fanno parte di un’installazione, intitolata Spiriti, esposta al Museo Madre di Napoli.
Le opere di Rebecca Horn, controverse, provocatorie, incisive, ci parlano corpi a metà fra realtà e immaginazione, umano e animale. I corpi ibridi, con funzionalità alterate, aumentate o limitate artificialmente, sono state il soggetto principale dell’artista tedesca, creazioni che hanno esercitato un’influenza profonda sulla cultura contemporanea, attraversando arte visiva, cinema, teatro, moda, design e letteratura. Le sue opere, caratterizzate da performance corporee, dispositivi meccanici e sculture cinetiche, hanno ispirato artisti come Marina Abramović e Matthew Barney, registi come Tim Burton e David Lynch, e designer come Alexander McQueen e Iris van Herpen.
L’estetica surreale e la poetica della fragilità e trasformazione di Horn hanno arricchito la narrazione visiva e teatrale, influenzato il design di abiti e accessori scultorei, e stimolato nuove forme di scrittura sperimentale. La sua capacità di sfidare i confini tra umano e macchina, realtà e immaginazione, continua a risuonare nella cultura popolare e a ispirare nuove generazioni di creativi.
La stessa Marina Abramovic ha dichiarato:
“Rebecca Horn è una delle grandi pioniere della performance art. Ha usato il suo corpo come strumento per raccontare storie di fragilità e trasformazione, e ha saputo creare una poesia visiva unica nel suo genere, influenzando molte delle generazioni successive di artisti.”
Cover Photo Credits: Les Amants, 1991