Togli un quadro dal muro e non succede niente. Massimo, fai un danno al muro. Togli l’arte dal quadro (che era appeso al muro) e il mondo sparisce: così, schopenhauerianemente, come quando togli il soggetto-che-vede-il-mondo. Non c’è arte senza mercato ma senza arte non c’è nemmeno il mondo. Provare per credere. Però, se il muro regge, vedi la presenza di un gesto artistico, mentre l’artista è nascosto dietro, sotto traccia. Perché l’arte c’è proprio lì dove non la vedi, quando è o-scena, cioè fuori dalla scena, per citare Carmelo Bene. Lui, di assenza, era uno che si intendeva. Celebre la battuta che girava in teatro quando c’era Lui: “Come va?” – “Non c’è Bene, grazie”.
In mostra da Maurizio Caldirola Arte Contemporanea a Monza (non) c’è Ivano Sossella: anzi, c’è poco più dello zero. Qui (non) lo avevamo visto nel 2017 e abbiamo continuato a (non) vederlo in occasione di una sua mostra alla Fondazione Sangregorio di Sesto Calende due anni dopo, dove la presenza massiva della scultura era evocata dalla sua ombra. Era la presenza-assenza della scultura: sotto il vestito niente e sopra il basamento idem, solo l’ombra proiettata dalla scultura, assente come il suo proprietario, cioè l’artista, cioè Ivano Sossella.
E noi continuiamo a (non) ri-vederlo, fedele com’è alla linea della presenza/assenza dell’arte. Sotto Traccia è il titolo della sua personale da Maurizio Caldirola, con testo a catalogo di Davide Di Maggio. Questa volta abbiamo qualcosa di più tangibile dell’ombra, abbiamo i detriti, abbiamo le vestigia di uno scavo. E abbiamo davanti agli occhi un muro, quel muro che evoca la messa in scena, anzi l’o-sceno dell’arte. Perché l’arte si palesa nella sua assenza, come quando immaginiamo un arco tra due sponde. Qui Sossella è stato il libero muratore, il massone che ha lavorato giorni e giorni su un’opera, a scartavetrarla, a cancellarla via, a tracciare e cancellare, quindi creando la traccia e la sotto traccia. Qui Sossella ha usato il cemento, lo ha scavato, lo ha stuccato e ricoperto. Così, in maniera ricorsiva, come la ricorsività nella Logica.
I critici d’arte, quelli di una volta almeno, ci dicevano che l’arte deve evocare. E allora qui siamo al cospetto del Quinto Elemento, dell’Idea platonica, dell’intima essenza: un passo in più rispetto ai Brillo Box di Warhol. L’arte è fuori dalla scena, fuori dalla mostra: la sagoma del quadro, l’ombra della scultura, qui è la cornice perimetrale servita a non far debordare il cemento scavato, stuccato e scartavetrato, mentre tutto il resto è noia, la noia autoriale, la noia dell’artista che mette l’io davanti alla sua opera: io/opera/mondo, era lo slittamento semantico della rivista socialista che si chiamava Mondo Operaio e qui da Maurizio Caldirola vediamo l’arte nel gesto del libero muratore. Chiaro, la firma c’è e un Sossella lo riconosci subito, basti pensare a Emilio Prini e a quella sua arte in via di sparizione dalla realtà. Come scrive Davide Di Maggio nel catalogo, “[…]è evidente che i lavori di Ivano Sossella propongano una narrazione complessa che parte da molto lontano ma che ci riguarda da molto vicino, una complessità che può tradursi in smarrimento in chi guarda, lasciando tuttavia che alla fine in qualche misura si plachi e scompaia lasciando il posto alla meraviglia dell’assenza“.
In mostra sei opere di vario formato e cementi diversi, da 23,5×34 cm a 2×72 cm, più l’opus magnum di 3 metri x 3 di cemento, la quintessenza dell’arte per chi pensa che l’arte sia apparenza: occorre aggiungere che qui usiamo il termine apparenza nel suo senso più elevato possibile, cioè o-sceno?