Tutto quello che avreste voluto sapere sui tatuaggi e non avete mai osato chiedere. Al Mudec a Milano, tra storia e attualità

“Tutte e tutti si tatuano di tutto”. Con questa sentenza ci accoglie la prima sala del Mudec a Milano, dove fino al 28 luglio 2024 amanti del genere, tatuati e non, potranno visitare la mostra Tatuaggio. Storie del Mediterraneo, a cura di Luisa Gnecchi Ruscone e Guido Guerzoni con la collaborazione di Jurate Francesca Piacenti.
Il progetto espositivo è molto più di uno scorcio e molto meno di una visione panottica: il fenomeno infatti viene inquadrato nel contesto geografico e culturale del Mediterraneo e il perché è presto detto, dal momento che i primi rinvenimenti archeologici avvennero proprio nell’area.

Questo, nonostante il tatuaggio come prodotto culturale sia ubiquo e diacronico, distribuito storicamente e geograficamente nel tempo e nello spazio, a cavallo dei secoli come una strega sulla sua scopa, dal 3000 a. C. fino ai nostri giorni

ph Carlotta Coppo

Se in un passato neanche troppo remoto il tatuaggio era considerato uno stigma negativo, oggi è normalissimo vedere un uomo o una donna, giovani o un po’ agée, con un piccolo o grande tatuaggio visibile sul braccio, sul polpaccio, sulla mano, in qualsiasi altra parte del corpo compresa la faccia (citofonare Young Signorino). Perfino gli attori esibiscono tatuaggi in scene del tutto normali dei loro film, come fossero una caratteristica naturale della pelle che non dà fastidio a nessuno.

L’ordinamento della mostra al Mudec è semplice e didascalico, ma nel senso buono del termine: il percorso è cronologico, va da Ötzi, l’Uomo venuto dal ghiaccio, il più antico uomo tatuato il cui corpo sia stato finora rinvenuto in stato di mummificazione naturale, all’allestimento scenografico di un tattoo shop dei giorni nostri.

ph Carlotta Coppo

Tutto il resto è un viaggio tra video e mappe interattive, oggetti, reperti storici, strumenti del mestiere antichi e moderni, videoinstallazioni, stampe, incisioni, disegni, reportage fotografici contemporanei, lembi e frammenti di pelle tatuata (sì avete letto bene, dal Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso), fotografie digitalizzate di detenuti e altri soggetti tatuati dalla fine del XIX all’inizio del XX secolo e materiale derivante da siti istituzionali come il Museo archeologico dell’Alto Adige dedicato al ritrovamento del succitato Ötzi, il Museo di antropologia criminale Cesare Lombroso dell’Università di Torino (in mostra anche interessantissime suppellettili, orci, piatti, boccali dell’800 provenienti dal carcere minorile La Generala e Le Nuove, entrambi di Torino), il Museo Nazionale delle arti e tradizioni popolari di Roma e il Museo Pontificio, Delegazione Pontificia per il Santuario della Sanata Casa di Loreto, fino alle collezioni private del Queequeg Tattoo Studio & Museo di Gian Maurizio Fercioni a Milano (in mostra cataloghi di disegni, stampi per tatuaggi e strumenti d’antan, come le bacchette provenienti dalla Polinesia, dalla Birmania e dal Borneo dal XIX al XX secolo).  

ph Carlotta Coppo

Ma il tatuaggio attraversa non solo il tempo e lo spazio ma anche il genere: ecco che allora una parte della mostra è dedicata al progetto fotografico Algeria’s Tattoos of Beauty della fotoreporter algerina Zohra Bensemra, realizzato nel 2015 nel massiccio montuoso dell’Aurès nell’est dell’Algeria, perché lì, tra la popolazione dei Chaoui, la bellezza di una donna si giudica dai suoi tatuaggi e da ciò che raccontano. 

Questo è infatti uno snodo centrale, non solo a livello espositivo (ripetiamolo, la mostra si concentra sull’area mediterranea ma espone anche materiali extra, essendo il fenomeno globale) ma anche a livello concettuale: se il tatuaggio è vecchio quanto l’uomo (si propone l’ipotesi interpretativa delle antiche incisioni nelle grotte come repliche di tatuaggi), nondimeno il fenomeno ha avuto tra le varie  civiltà connotazioni contrastanti. 

Segno di appartenenza etnica, religiosa, militare, ma anche rito propiziatorio per ingraziarsi gli dèi e pratica devozionale, il tatuaggio ha sempre oscillato fra giudizi negativi e giudizi positivi: la civiltà ellenica lo associava alle usanze delle popolazioni barbare e l’antica Roma ne ereditò il parere, considerando il tatuaggio una pratica degradante e indegna di uomini liberi, roba da criminali, prigionieri e schiavi

Anche l’età medievale ebbe una pessima idea del tatuaggio, intrinsecamente associato all’esercizio delle vili arti meccaniche: i lavoratori manuali riuniti in corporazioni adottavano un simbolo di riconoscimento, il Tau, lo stesso simbolo che Dio impresse sulla fronte di Caino quando lo scacciò dal paradiso terrestre e lo mandò a lavorare sulla Terra. All’epoca insomma operai e artigiani avevano “il segno di Caino”, cioè il segno degli ultimi.

ph Carlotta Coppo

Ma d’altro canto proprio il segno della Croce cristiana è… un tatuaggio: oggi in Paesi dove i copti e i cristiani sono vittime di attentati terroristici da parte dell’islamismo radicale, all’ingresso di molte chiese copte gli addetti alla sicurezza controllano che coloro che entrano abbiano la croce tatuata sul polso. 

Del resto il tatuaggio della Croce è un fortissimo simbolo identitario, come testimonia l’uso di tatuarsi presso le popolazioni balcaniche: nei tre secoli di dominio ottomano, dalla seconda metà del Cinquecento alla seconda metà dell’Ottocento, il tatuaggio è stato un segno di appartenenza e protezione dalla conversione religiosa forzata, applicato anche se non soprattutto ai più giovani, secondo una tradizione che sarebbe proseguita fino al pieno Novecento. 

Un’idea, questa, che forse Lombroso avrebbe giudicato anti-scientifica: il fondatore dell’antropologia criminale considerava i tatuaggi come chiari segni di devianza e inclinazione al delitto. Una condanna senza appello: gli antropologi criminali sottolineavano il carattere atavico e primordiale del tatuaggio identificato come il filo rosso che per loro legava i “feroci selvaggi” descritti dagli esploratori e i “cavernicoli urbani” responsabili dei più efferati delitti contro la società civile: da qui in mostra i grandi disegni, le fotografie e i lembi di pelle di carcerati ottenuti con il consenso dei familiari, che ricevevano (modeste) somme di denaro come riconoscimento del loro contributo all’impresa scientifica.

ph Carlotta Coppo

Eppure, come dissero i Padri della Chiesa nel concilio di Northumberland del 787, c’erano tatuaggi buoni e tatuaggi cattivi, un po’ come il colesterolo. Nella fattispecie, profani (cattivi) e cristiani (buoni): “Quando uno si sottomette alla dura prova del tatuaggio per amore di Dio, egli deve essere molto lodato, ma chi si fa tatuare per superstizione Come fanno i pagani non ha nessun merito”.

Ed è infatti vero che molti fedeli si facevano tatuare il nome e il simbolo di Gesù, l’alfa e l’omega, i simboli del pesce (Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, le cui iniziali in greco formano la parola ichtùs, cioè “pesce”) e dell’agnello, cristogrammi, simboli della Croce e nomi di santi e Padre Pio portami via.

“Tatuaggio. Storie del Mediterraneo” val bene una visita, perché molti di noi adottano oggi una pratica atavica ma non lo sanno. Un solo appunto: sarebbe stato interessante avere anche uno sguardo sull’arte contemporanea, magari non una roba grossa, almeno un accenno, perché una parte, magari piccola ma pur sempre importante, della storia dell’arte contemporanea si può leggere o ri-leggere (anche) alla luce di questo fenomeno.

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