I profeti in patria sono esuli del mondo. Gertrud Goldschmidt è stata esule della vita, in quanto ebrea tedesca, già adulta alla vigilia dell’Olocausto. Ma è stata pure esule della storia dell’arte del Novecento, in quanto artista attiva e rappresentativa di una ricerca sulla composizione in pittura, nelle arti plastiche, in architettura e nella didattica, dall’inesausto impegno (1912 – 1994) confinata a vita in Argentina. E perciò relegata a una fama dislocata.
Ci è voluto un Papa venuto “dai confini del mondo”, cioè dall’Argentina, appunto, per sdoganare lo spirito diviso dall’Oceano. Ma era capitato anche a Adolfo Celi di diventare magicamente il profeta del teatro e del cinema brasiliano, il deuteragonista delle saghe di James Bond, mentre lo show business italiano, al massimo, e solo dopo tanta gloria, gli attribuiva parti memorabili, ma secondarie, in un paio di episodi degli Amici miei.
Oggi, forse, anche in forza di questo spirito del tempo (che ha tempi lunghi, ma irrevocabili), lo spirito della Goldschmidt trova luogo, finalmente, nel posto che le spetta, un sacrario dell’arte che custodisce e protegge i propri spiriti eletti: il Guggenheim Museo a di Bilbao accoglie l’opera omnia di Gego, in contemporanea a una mostra sulle sculture di Picasso, nientedimeno.
Gego, così la chiamano affettuosamente in Argentina ancora oggi, è stata dunque profeta in esilio dalla Terra dell’Arte, che da Fidia, Zeusi, Parrasio, Timanto ed Apelle, passando per tutta la comunità millenaria degli artisti fino a Picasso (e oltre, per carità), hanno abitato le coste del pianeta dove il sole tramonta elargendo miti al resto dell’Orbe.
Da adesso fino al 4 febbraio 2024, l’Occidente colto e maturo, forse ormai troppo maturo, ma perciò, forse, eternamente salvo, riconosce tra i propri spiriti magni, non ancora degnamente celebrati, questa artista raffinatissima e gentile, sfuggita agli orrori del Secolo dei Lunghi Coltelli, falciatori di profezie, e operante per una buona metà di quel secolo scorso in una semi oscurità protetta, seppure non del tutto riconoscente.
L’allestimento del santuario basco dell’arte è di per sé un impressionante fenomeno estetico, il grande spazio riservato alle testimonianze che Gego ha lasciato durante il suo passaggio a latere dei principali avvenimenti storico artistici del Novecento, di cui si percepisce la remota influenza, appunto, rende maestosa una installazione che, quasi per paradosso, è composta invece da sostanze assai rarefatte, sebbene fittissime e precise. Tale è la specie creativa della Goldschmidt, e ben indovinato è il titolo dato alla mostra dalla curatrice Geannine Gutierrez-Guimaraes: “Misurare l’infinito”.
L’ambiente del Guggenheim di Bilbao, chiuso, e tuttavia dinamico e aperto come un libero spazio aereo, trasmette l’incredibile sensazione di contenere l’infinito, in effetti, tanto vasta e poderosa è la panoramica degli interni, articolata in volumi e volute piranesiani, tendenti alla perdita dell’orizzonte. Perfettamente coerente all’intenzione espositiva risulta dunque la ricerca sullo spazio che contiene le opere. Un allestimento sospeso, sottile, bianco, nitidissimo e allo stesso tempo dissolto in infinite componenti particolari (sarebbe più indicato dire particellari) quali sono i dettagli infinitesimali, frattalici direbbe ancora lo scienziato, nei lavori accuratissimi, minuziosi fino alla riproduzione estetica di un insieme incalcolabile di organismi radunati in un solo luogo e nello stesso tempo, nel medesimo spazio fisico e visivo, a formare la struttura immaginaria dell’organismo complesso e senza confini che chiamiamo l’Universo.
È questo il risultato, di imprendibile, stupefacente armonia, della bella mostra che in tale maniera merita, postuma, Gertrud Goldschmidt.
Si percorre, infatti, come in sospensione la teoria delle pareti e delle superfici orizzontali, quasi vedendo e sentendo qualcosa di simile a ciò che provano gli astronauti durante la preparazione tecnica alla vita negli spazi siderali.
Sono oltre 150 le opere esposte ma sembrano infinitamente di maggior numero, anche per via della larga fascia temporale di attività dell’artista che testimoniano, dagli anni Cinquanta ai Novanta. Variegata, antologica, plenaria è la catalogazione dei momenti produttivi, dai disegni alle vedute da flâneuse, cartoline su tempera delicatissime, appunti di viaggio che evocano i profumi e i colori tramandati nell’iconografia umana del dopoguerra, agli schizzi per i grandi manufatti architettonici, che rinviano, nella realizzazione restituita dai repertori fotografici, pure in mostra, a metafore monumentali di quegli stessi componimenti scultorei dall’ispirazione astrattista geometrica, tipica del periodo.
Ma i più qualificanti risultati dell’opera di Gego si rappresentano nelle composizioni che prendono linfa dai movimenti coevi dell’arte cosiddetta cinetica. E qui l’esuberante fantasia cesellatrice, limatrice e modellatrice dell’artista dà corpo (diremmo più anima che corpo) a infiniti mondi fatti di linee e nodi intersecanti che paiono comporre lo spazio aereo medesimo, contenuto in uno spazio finito, ma replicante l’eternità pulviscolare del movimento, della forma e del tempo.
Computando l’infinito in esilio, insomma, Gego ha navigato nell’Universo, ha compiuto il suo ciclo ed è tornata profeta in patria.