I lavori di Francesca Grilli muovono da elementi privati e personali per incontrare lo spazio d’azione dello spettatore, coinvolgendolo in un territorio incerto e perturbante.
Francesca Grilli è una degli artisti associati del Santarcangelo Festival. La sua ricerca esplora l’ambito del suono, nelle sue molteplici implicazioni espressive e percettive. Prediligendo il linguaggio performativo, i lavori muovono da elementi privati e personali per incontrare lo spazio d’azione dello spettatore, coinvolgendolo in un territorio incerto e perturbante. Nella sua ricerca si rintracciano infatti due aspetti centrali: il trattamento del suono in tutte le sue forme e registri, e lo spazio d’azione dello spettatore. La sua poetica si articola tramite video e performance, concentrando rispettivamente l’attenzione sulla complessità del racconto intimo e sulla ricerca di un’azione della massima intensità, coadiuvata dall’elemento sonoro, ritenuto dall’artista lo strumento più efficace per comunicare direttamente con l’inconscio personale e collettivo.
Tra le personali di rilievo si segnalano quella al MACRO di Roma (2012) – risultato di un periodo di residenza svolto presso il museo – e The Conversation al MAMbo di Bologna (2010). Il suo lavoro è stato presentato in diverse sedi espositive in Italia e all’estero, come il MADRE di Napoli (2012), la Galleria d’Arte Contemporanea di Monfalcone (2012), la Serpentine Gallery di Londra (2010), Manifesta7 a Bolzano (2008). Numerose le partecipazioni ai festival di performance: Drodesera Festival alla Centrale Fies di Trento, Mantica al Teatro Comandini di Cesena, DNA del Romaeuropa Festival, UOVO Performing Art Festival a Milano e Santarcangelo Festival, di cui è artista associata dal 2017.
Chi è Francesca Grilli? Descriviti con 3 aggettivi. Sono un’artista, una madre attivista e una donna.
Qual è il tuo background artistico e il messaggio che vuoi comunicare con la tua arte? La mia formazione è da fotografa, videomaker e grafica all’ISIA di Urbino, successivamente mi sono spostata ad Amsterdam alla Rijksakademie, una residenza per artisti visivi. Il mio punto di partenza rimane l’arte visiva, cammino su quella sottile linea che divide le arti performative più vicine al teatro e quelle più legate all’arte visiva. Non ho l’ambizione di fare teatro ma vengo ospitata anche in contesti teatrali.
Raccontaci il tuo progetto per Santarcangelo Festival. Sono un’artista associata del Festival per il triennio 2017-2019, ogni anno presento una perfomance diversa, in alcuni case in coproduzione con il Festival. In questo percorso il filo conduttore delle performance è legato a diverse forme del concetto di rivoluzione. Nel 2017 ho presentato The forgetting of air, affrontando il tema della rivoluzione intesa come senso di condivisione. Nel 2019 il Festival co-produrrà un nuovo lavoro legato all’infanzia e alla visione rivoluzionaria dell’infanzia. Quest’anno presento Gold- rising version, in una versione espansa e ad hoc per il Festival. È un lavoro iniziato nel 2011, che ho deciso di riprendere per dargli una veste diversa. Quest’anno rifletto su come la parola rivoluzione venga utilizzata al giorno d’oggi, sul suo uso e abuso. In questi mesi sto portando avanti uno studio su come tale parola viene utilizzata nel mondo, attraverso l’ascolto e la lettura dei mezzi d’informazione globali. In questa performance la parola rivoluzione è cantata nelle sue varie declinazioni, sulla traccia di quello: tre cantanti intonano le frasi estrapolate da diversi contesti di informazione. Associata al canto c’è la presenza nello spazio di tre falconi che volano liberi. Il falco è un animale con cui noi non entriamo mai in contatto e che incute il fascino e il timore che ogni rivoluzione contiene.
Che idea ti sei fatta sulla “rivoluzione del contemporaneo” dei nostri tempi? Quando ho cominciato a ri-lavorare a Gold mi sono posta questa domanda: cosa significa cantare la rivoluzione oggi? Generalmente quando pensiamo ai canti rivoluzionari ci rivolgiamo sempre al passato, ai canti storici, a quelli legati ad alcune particolari momenti storici. Ma oggi cosa significa cantare la rivoluzione? È una domanda che rimane aperta. Nella mia performance non c’è una risposta definitiva. Ogni volta che questa performance viene riproposta, in contesti e momenti diversi, utilizzo la parola rivoluzione di quel preciso momento, facendo cantare ogni volta un repertorio di frasi differenti. Questo permette di prendere in considerazione un concetto estremamente contemporaneo della parola rivoluzione, ovvero la sua espropriazione: si ha bisogno di utilizzare moltissimo questa parola e viene spesso (ab)usata per indicare rivoluzioni che non portano a reali cambiamenti (penso ad esempio a espressioni come “la rivoluzione della lavatrice”, “la rivoluzione del cibo”, “la rivoluzione della moda”…). Forse proprio tale svuotamento di senso funziona oggi come giustificazione del fatto che una vera e propria rivoluzione non viene attuata ormai da molti decenni.
Il tuo giudizio sul ruolo e l’importanza della performance nel panorama artistico italiano, rispetto ad uno scenario internazionale. Io parlo sempre con un occhio rivolto all’arte visiva e per questo forse risponderò alla domanda con uno sguardo molto privato e personale, non legato al teatro ma più all’azione. Quando in un contesto internazionale viene utilizzato il termine “performing arts”, si indica tutto: il teatro, l’arte visiva e le altre forme d’arte performativa. In Italia, invece, è un termine più legato a un’azione, quindi all’arte visiva. Declinata in questo senso, credo che nel mondo si abbia sempre più bisogno di performing arts. La performance, rispetto agli anni ’70, è riuscita a diffondersi in maniera prepotente, e forse sarà la forma d’arte del futuro: probabilmente anche nei musei, che per ora contengono oggetti statici, still objects: forse oggi c’è bisogno di portare la vita, di far penetrare la live art in ambienti chiusi. In generale mi sembra che nel mondo ci sia il bisogno di dare attenzione a questa forma d’arte. L’Italia, pur con l’eccezione di alcuni contesti molto interessanti come appunto Santarcangelo Festival o Centrale Fies a Dro (TN), fatica a vedere e sostenere la performance come una forma d’arte completa.
Come si può avvicinare maggiormente il pubblico a questa forma d’arte? Sicuramente attraverso l’esperienza. Devono esserci prezzi accessibili e una più diffusa presentazione dell’opera performativa da parte del contesto sociale e politico. In questo senso l’Italia sta vivendo un periodo buio, un momento di generalizzata censura. Ma è proprio in questi momenti che la performing art può intervenire in maniera prepotente, donando allo spettatore un’esperienza che va molto oltre la parola o la propaganda politica.
Quali sono i tuoi progetti dopo il Festival? Il mio progetto appena dopo il Festival, circa due settimane dopo, è partorire la mia seconda figlia! Arriverò al Festival al nono mese di gravidanza. In seguito inizierò un nuovo progetto, co-finanziato da Santarcangelo Festival, che tratterà il rapporto tra rivoluzione, infanzia e chiaroveggenza.