Alla scoperta della Colombia indigena. Al Rietberg Museum di Zurigo

Non siamo il centro del mondo. Già nel 2007 la giornalista Marina Valensise scriveva sull’importanza di “rompere con l’«occidentalcentrismo», che ci fa prendere per norme universali di condotta il nostro comportamento «liberato».

Questo concetto è alla base della mostra ospitata presso il Rietberg Museum di Zurigo, curata da Fernanda Ugalde. Visitabile fino al 21 luglio 2024, l’esposizione presenta più di 400 pezzi della cultura indigena colombiana. Il titolo Più che oro. Lustro e visione del mondo nella Colombia indigena è già di per se molto esplicativo. La prospettiva dalla quale viene raccontata la storia è infatti quella indigena, caratteristica singolare per un’esposizione europea, generalmente realizzata ad-hoc per un pubblico occidentale. Il modo in cui i pezzi vengono esposti cambia chiaramente in base alla cultura d’appartenenza e in questo caso la curatela ha rispettato la loro origine.

Membri della comunità degli Arhuaco a Kantinurwa © Foto Jorge Mario Arango

Si tratta di una scelta senza dubbio coraggiosa, facilmente attaccabile dal pubblico ma anche dalla critica. Un chiaro esempio è sicuramente la mancanza delle datazioni nelle didascalie. La motivazione dietro a questa scelta è legata al modo in cui gli indigeni concepiscono i manufatti. Fernanda Ugalde, la curatrice, spiega che non si tratta solo di semplici testimonianze di tempi antichi ma sono anche oggetti sacri e spirituali. È un’arte non relegata al passato ma che vive ancora oggi di valori fondamentali.

Laguna di Katansama con Jaison Pérez Villafaña leader dellArhuaco © Foto Jorge Mario Arango

Basilare è il tema dell’anima. Per gli Arhuaco, gruppo indigeno della Sierra Nevada de Santa Marta, che condivide la parte caraibica della Colombia con altri tre gruppi indigeni, questi manufatti riguardano tanto la cosmologia quanto la natura e ideali simbolici. È proprio per questo motivo che gli oggetti, riflettendo una prospettiva umana e una concezione del mondo rilevante anche nel presente, non possono essere unicamente associati al loro periodo di realizzazione.

La mancanza delle datazioni dei pezzi dalle didascalie, è una scelta ancora più insolita se si pensa al background della Ugalde. Archeologa di professione, è indubbiamente raro se non un unicum che un ricercatore così legato al carattere storico di un manufatto, decida di eliminarne l’aspetto temporale.

Allestimento mostra “Più che oro”, foto: Mark Niedermann, © Museum Rietberg

È come se si trattasse di un diverso approccio all’archeologia, che non si basa su quello che è canonicamente considerato giusto da una mente occidentale. Importante è sottolineare che non si tratta di supposizioni, sono spiegazioni che le stesse persone indigene hanno dato alla Ugalde durante un confronto diretto. Sempre durante questi incontri e dopo aver trascorso diverso tempo tra gli indigeni colombiani, alla curatrice fu chiaro che i manufatti da esporre non potevano essere isolati dal loro contesto.

Allestimento mostra “Più che oro”, foto: Mark Niedermann, © Museum Rietberg

Per qualunque tipo di opera d’arte è fondamentale contestualizzarla nel luogo e periodo di realizzazione ma in questo specifico caso è ancora più importante. Gli stessi indigeni hanno esplicitato il desiderio di restituire agli spettatori, per quanto possibile, suoni e colori della natura incontaminata dove vivono, boschi e montagne della loro terra. In Più che oro l’aspetto sonoro è infatti estremamente rilevante. Durante la visita ci accompagnano i suoni degli uccelli e di altri animali che popolano le foreste, come la ghiandaia dal petto nero o il tucano dei Caraibi.

I rumori della natura vengono accompagnati da grandi fotografie a solo scopo illustrativo, che ritraggono i suggestivi paesaggi colombiani, dagli altopiani alle pianure. Quest’esperienza quasi immersiva raggiunge il suo apice in una piccola sala, pensata appositamente per dare al visitatore l’impressione di essere tra i membri di una comunità indigena. Questi popoli si riuniscono spesso al centro dei villaggi, seduti per terra in modo da formare un cerchio.

Aree pianeggianti sopraelevate della Ciudad Perdida © Foto Jorge Mario Arango

Ai visitatori viene data la possibilità di fare lo stesso all’interno di un ambiente circolare, ascoltando i ruomori del luogo e ammirando le immagini dei paesaggi che rivestono le pareti. L’obiettivo è quello di trovare un momento di riposo e rilassamento, come una forma di decompressione dallo stress a cui siamo continuamente sottoposti e che è ormai considerato parte integrante delle nostre vite. Una vera e propria immersione in un ambiente e stile di vita che non ci appartengono, così lontani dal nostro quotidiano ma che dovrebbero farci riflettere sull’attuale stile di vita dell’uomo occidentale. È studiando l’altro che capiamo anche noi stessi

Allestimento mostra “Più che oro”, foto: Mark Niedermann, © Museum Rietberg

La componente sonora in mostra non si limita solo alla resa dei rumori della natura, infatti il coinvolgimento delle comunità della Sierra Nevada de Santa Marta e di artiste e artisti colombiani riguarda anche un lato più artistico oltre che prettamente curatoriale.
Il Museo Rietberg ha elaborato insieme a loro una serie di eventi. Sarà ad esempio possibile assistere a una rappresentazione della pièce teatrale “Los saberes del Tungurahua” (La conoscenza di Tungurahu) di Leonardo Abonía. Drammaturgo di professione e ricercatore originario di Cali, ha studiato per molti anni il teatro preispanico. In questa “sala rotonda”, dal carattere così singolare e che senza dubbio supera la forma museale, sono esposte le maschere utilizzate dall’artista nelle sue performance, creando in questo modo un interessante collegamento tra arte antica e arte contemporanea.

La scelta di esporre anche opere odierne non è da sottovalutare. Con la loro presenza ci dimostrano che l’arte che consideriamo antiquata e appartenente ad un tempo ormai lontano, vive ancora oggi. Questi artisti portano avanti le tradizioni più primitive nel mondo moderno. Ogni corrente artistica è l’evoluzione di quella precedente, proseguendola o contrastandola e la stessa cosa avviene anche nell’arte indigena.

Le comunità degli Arhuaco hanno partecipato al progetto anche con una serie di sessioni di meditazione nelle sale d’esposizione e nel parco del museo, permettendo ai visitatori di familiarizzare con la loro visione del mondo.

Di grande considerazione è questa volontà della curatrice di espandere il progetto oltre alla sola esposizione, attraverso attività che coinvolgono il pubbico attivamente. Il musicista ed etnomusicologo Juan Fernando Franco per esempio, presenterà la sua opera e suonerà vari strumenti aerofoni come flauti, pifferi e ocarine preispaniche, ricollegandosi così al mondo sonoro dei suoi antenati. 

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