Attesa, attesissima, visitata, visitatissima: Arte Povera alla Bourse de Commerce, sede della Pinault Collection a Parigi è stata la mostra di cui tutti hanno parlato questo mese e che in molti abbiamo visitato.
Ha aperto i battenti lo scorso ottobre, il 9, con un opening serale che ha infastidito non poco chi si era già prenotato per l’apertura, quel giorno stesso, di Frieze Art Fair a Londra: il gran circo dell’arte è andato in serata a Parigi e la mattina dopo, in Regent’s Park, ancora parlava di ciò che aveva visto alla Bourse.
C’è tempo ancora fino al 20 gennaio per vedere che cosa ha orchestrato alla Bourse Carolyn Christov-Bakargiev, curatrice versatile e dal carattere non semplice (chiedere a chi vi ha lavorato nel suo “ventennio” torinese, tra Rivoli e GAM). L’obiettivo dichiarato dell’esposizione da lei firmata è presentare al grande pubblico la nascita e anche la “legacy and influences” del movimento, ovvero il lascito e le conseguenze che l’Arte Povera, un made in Italy datato 1960, ha lasciato nella contemporaneità.
Per declinare il primo punto alle attenzione del grande pubblico, si è scelto di presentare il lavoro dei 13 principali esponenti dell’Arte Povera: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, e Gilberto Zorio. Ogni scelta presuppone una rinuncia ed è logico che, anche per motivi espositivi, sia stato necessario operare una selezione e concentrarsi sui nomi più importanti “e ortodossi” del gruppo. Meno riuscita invece la selezione di opere dei cosiddetti “eredi” poveristi, ma ci torniamo dopo.
Partiamo dall’inizio, perché è una delle cose più belle. Fuori dalla Bourse spicca la meravigliosa scultura Idee di pietra -1522 kg di luce (un’opera del 2010) di Giuseppe Penone: se avete la fortuna (a me è capitato proprio così) di vederla in una giornata inondata di sole e di luce, merita da sola la visita. L’opera combina rocce diverse incastonate tra i rami di un albero, nel solito intelligente equilibrio che Penone sa creare tra creatività umana e generatività naturale.
Preparatevi poi a mettervi in coda (la Bourse attira parecchi turisti ormai) e approfittate del tempo di attesa al metal detector per ammirare nell’atrio, sul pavimento, la poetica Senza titolo di Marisa Merz, un lavoro del 1997, una sorta di fontana con al centro un violino di cera: l’acqua fuoriesce dal cuore dello strumento, delicata e ritmica. Un inizio perfetto: sta tutta qui la semplicità e la bellezza dell’Arte Povera.
Prima di entrare nella Rotonda ridisegnata per volere di Pinault da Tadao Ando, il corridoio di passaggio ci presenta nelle vetrine il contesto in cui nasce l’Arte Povera, con particolare attenzione a un gruppo di artisti (Piero Manzoni, Alberto Burri, Carla Accardi) della generazione appena precedente e un affondo sul leggendario evento “Arte povera più azioni povere” che si tenne ad Amalfi nel ’64. Le vetrine – se siete stati già alla Rotonda lo sapete – sono tante e anche in questo caso è dispersivo seguirle e soffermarsi su ciascuna: restano così degli interstizi non ben spiegati e un po’ pasticciati, specie quelli dedicati agli esiti successivi dell’Arte Povera in cui vediamo le opere di Grazia Toderi, Adriàn Villar Rojas, Otobong Nkanga, presentati insieme a molti altri, come “omaggi” all’Arte povera realizzati negli anni Novanta e Duemila. Tante cose, alcune notevoli ma un po’ alla rinfusa, va detto.
Veniamo al clou della mostra: la Rotunda. Con una scelta che ha esaltato alcuni e lasciato perplessi altri, la curatrice ha assemblato al centro della scena “lo spirito collettivo dell’Arte Povera”, presentando un’opera emblematica di ciascuno dei 13 protagonisti di cui si diceva. L’impatto iniziale è da “effetto wow“: sculture, tele, installazioni, macchie di colore, gli stracci di Pistoletto e gli igloo di Merz, l’Autoritratto di Boetti e Lo spazio di Paolini, Direzione di Anselmo e Macchia di Zorio… Affascinante, ma confuso: un allestimento che non prende per mano il visitatore ma che punta a sedurlo, a ipnotizzarlo (forse troppo).
Il risultato? Tutti con il cellulare in mano a fare video, ché – ancora una vola – la Bourse, questo spazio rotondo e dai soffitti iperdecorati con lucernari da cui la luce entra ovunque – “divora” qualsiasi cosa vi sia dentro.
È complicatissimo realizzare qualcosa nella Rotunda che non sia la Rotunda stessa: ogni opera d’arte sembra essere un mero orpello. E così, anche la didascalica scansione delle sale della galleria, al primo e al secondo piano, perdono di potenza e di efficacia: a ciascuno degli artisti è dedicato uno spazio, corredato di breve bio e spiegazione della poetica, eppure appare tutto un po’ freddo, senza anima, ad eccezione per la riuscitissima combinazione Merz (Marisa) + Merz (Mario).
Si esce forse un po’ più poveri di spirito da questa mostra sull’Arte Povera, un’esposizione che è nel solco perfetto della grandeur parigina, dove ormai l’arte contemporanea è padrona di casa e le mostre sono sempre più ampie, “muscolari”, con prestiti eccezionali e allestimenti sbalorditivi (viene allora da chiedersi che cosa seguirà tutta questa indigestione creativa: lo vedremo con curiosità e senza pregiudizi).