Tutto è cominciato nel 2020, con la pandemia. A quel tempo, la fotografa Siân Davey, con un passato di psicoterapeuta e in seguito autrice di splendidi libri di ritratti famigliari intimi e toccanti (come la serie “Looking for Alice”, del 2015, che ha raccontato i primi anni di vita della più giovane dei suoi quattro figli, nata con la sindrome di Down, o “Martha”, del 2018, incentrato sull’adolescenza di un’altra figlia), ha deciso di coltivare un giardino.
È stato il figlio, Luke, da poco tornato da un monastero buddista (madre e figlio sono entrambi buddisti), a suggerirle l’idea: “Perché non riempiamo il nostro giardino sul retro, abbandonato da almeno dieci anni, di fiori selvatici e di api – e invitiamo le persone che incontriamo oltre il muro del giardino a farsi fotografare da te?”. “Quell’idea”, racconterà in seguito Siân Davey, è stata “come piantare un seme nel terreno”.
E di semi, in quell’anno così drammatico e liminare per tutto il mondo, ne pianteranno letteralmente a centinaia, in quel giardino abbandonato. Inopinatamente trasformatisi in giardinieri autodidatti, madre e figlio hanno impiegato tre mesi per ripulire il terreno e ore di scrupolosa ricerca sui semi e sui metodi di coltivazione.
“Abbiamo studiato intensamente i fiori autoctoni, il suolo e la biodiversità. Abbiamo acquistato semi locali biologici e seminato sotto i cicli lunari, in modo biodinamico”. E, con l’arrivo della primavera, hanno cominciato a vedere nascere i primi frutti del loro lavoro: “Abbiamo visto i fiori emergere, spuntare silenziosi da ogni angolo del giardino. Verbasco, olmaria, carota selvatica, girasoli giganti e migliaia di papaveri e fiordalisi. Abbiamo costruito strutture per zucche rampicanti, tromboncini e piselli odorosi”. E, con i primi fiori, con il rigoglio della primavera che arricchiva quel giardino rimasto per tanto tempo abbandonato, i primi curiosi hanno cominciato a fermarsi, a chiedere, a parlare.
In realtà, il rapporto con i vicini era iniziato già prima, complice un muro di separazione piuttosto basso, meno di un metro, e la propensione di madre e figlio ad accogliere, a guardare, a offrire, ascoltare: “Abbiamo offerto preghiere lungo la strada”, racconterà ancora la fotografa. “Abbiamo invitato gli impollinatori e gli spiriti della natura. Luke e io abbiamo condiviso ossessivamente i nostri sogni, le nostre intuizioni e visioni. Abbiamo chiamato i nostri antenati per sostenere e dare forza alla nostra visione. Abbiamo raccolto le storie delle persone che incontravamo di là dal muro del giardino mentre lavoravamo, che presto è diventato uno spazio intimo e confessionale”. Luogo di racconti, di scambi, di confessioni, di apertura, di pietas e di gioia, ma anche di lacrime: “La gente è venuta al muro del giardino e ha pianto. Quante lacrime ho visto nel giardino?”.
Non un giardino qualsiasi, a guardar bene: dal momento che Siân vive, con la sua famiglia, in una casa all’interno della tenuta di Dartington Hall, nel Devon, nel sud dell’Inghilterra, un maniero medievale immerso nel verde della campagna inglese trasformato, da oltre cent’anni, in fondazione (il Dartington Trust) con lo scopo di unire ecologia, arte e giustizia sociale. E proprio oggi, in quella stessa fondazione, è aperta la mostra The Garden (fino al 10 settembre 2023, https://www.dartington.org/whats-on/info/gallery/), che ripercorre le tappe di quella straordinaria esperienza, ora pubblicata anche in un bellissimo libro, appena edito da Photo Elysée.
Non appena le piante hanno cominciato a fiorire, infatti, le persone hanno iniziato ad arrivare, facendo dapprima capolino oltre il muretto, poi prendendo coraggio, e spingendosi all’interno. Davey ha piazzato una vecchia sedia di velluto verde in mezzo all’erba e ai fiori, e ha iniziato a scattare. Altri, invece, hanno preferito sdraiarsi, avvoltolarsi nell’erba, crogiolarsi nel rigoglio della natura in fiore. Tutti si sono scrollati di dosso le loro ansie e le loro repressioni quotidiane, e hanno lasciato fluire il loro vero io. Molti hanno preso l’invito di Davey ad “aprirsi e lasciarsi andare” alla lettera, abbandonando anche i vestiti, mostrandosi in mutande, o completamente nudi: un gesto, dice l’artista, che si è verificato spontaneamente, mai su sua richiesta. “Man mano che il giardino si è evoluto”, ha spiegato l’artista, “è diventato un’espressione di gioia, interconnessione, desiderio, sessualità e sfida. Il giardino è diventato una metafora del cuore umano”, spiega: “le persone ci raccontavano le loro storie. Erano rimasti isolati per molto tempo e quelle storie hanno cominciato a intrecciarsi nel giardino”.
Le foto che ne sono venute fuori sono apparentemente semplici, misteriose, toccanti: una madre che tiene stretta tra le braccia la figlia, che ha una malattia degenerativa. Una donna bionda ride: eppure, quando l’artista l’ha conosciuta, aveva le sembianze di un uomo, e indossava abiti femminili solo di nascosto: “Un giorno l’ho incontrato lì vicino, mi ha detto: ‘Lo faccio da anni e non voglio più nasconderlo. Io ho risposto: ‘Perché non vieni nel mio giardino, porti dei vestiti, e ti fotografo?’. E così ha fatto”. Un ragazzo e una ragazza, che passavano davanti al muretto del giardino mentre andavano a nuotare nel fiume, sono raffigurati sdraiati sull’erba in un abbraccio appassionato; due ragazze si abbracciano e guardano, con aria pensosa, l’obiettivo; un’altra ragazza, nuda, immersa nel rigoglio dei fiori appena sbocciati, si rotola nell’erba e sembra tornare a un antico stato di natura. “Tutto si riduceva alla possibilità, in questo spazio, per le persone di essere sé stesse in totale libertà”, ha spiegato l’artista. “Sembrava che il potenziale per il mondo intero fosse contenuto in quel giardino: era democratico e inclusivo”. Centinaia di scatti, esperienze, scambi, parole, ricordi: non solo un libro e una mostra, ma, come dice Davey, “un’indagine filosofica: qua è racchiuso il culmine di tutto ciò che ho capito sull’essere umano”.
Photo Courtesy: ©Siân Davey