Prosegue la parata dei Grandi di Spagna al Palazzo Reale di Milano: dopo El Greco è arrivato in questi giorni Don Francisco Goya con “La ribellione della ragione”, e vi resterà in bella mostra fino al 3 marzo prossimo, ospitato nelle sale al piano terreno, lungo un percorso espositivo che va dalla luce alle tenebre, nell’allestimento cerimoniale di Fabio Novembre.
Non è infatti la solita mostra antologica del maestro spagnolo che dipinse la Spagna a cavallo tra i secoli XVIII e XIX, criterio museale aborrito, e schivato in altra, originale soluzione dal curatore, l’accademico madrileno Victor Nieto Alcaide, che ha piuttosto pensato a una rendicontazione di profilo “ideologico” dell’artista. Che tiene cioè conto degli impulsi primari della biografia artistica del Goya: dalla tensione all’espressività pura alla ricerca della spontaneità e libertà dell’arte, allo scandaglio psicologico dei ritratti, senza dimenticare il tratto poderoso e qualificante dell’attività del pittore, ovvero la ricerca incessante di un realismo razionalista ottenuto non già nella tecnica, anticipatrice di maniere pittoriche contemporanee, sgrezzate, volutamente non nitide, realizzate con pennello veloce che ambisce all’astrazione, se non già a embrioni di astrattismo.
Un risultato ottenuto, nell’intenzione curatoriale, anche grazie alla messa in mostra, resa possibile da minuziosi anni di restauro da parte della Accademia di Bellas Artes di Madrid (parte attiva nella realizzazione della mostra di Palazzo Reale), delle matrici in rame servite al Goya per la stampa delle preziosissime grafiche, nel ridottissimo repertorio di copie tramandato.
Ed è proprio nel lavoro di incisione che il pittore iberico aveva espresso con la maggiore libertà le proprie autentiche pulsioni d’artista, nei reportage sulla guerra, raccontata per episodi minimali ma efferatamente crudeli, sebbene riportati con gusto quasi metaforico, mai in presa diretta, e a prescindere dai torti e dalle ragioni politiche. E poi nei Caprichos, scene grottesche e satiriche sulla vita sociale degli uomini del suo tempo, nelle allegorie di sapore addirittura tardo barocco (o irrinunciabilmente spagnolo), con una selezione di temi che orbitano sulle riflessioni attorno ai mostri della ragione o di quelli generati dal sonno della ragione medesima.
Conviene senz’altro rispettare l’ordine di lettura di questa rassegna goyesca impresso dai curatori, ovvero lasciarsi guidare, all’ingresso nelle prime sale, dalla luce dei ritratti e degli autoritratti, lasciati alla storia dell’arte quali exempla di una maniera specifica e distintiva di riprodurre mimeticamente volti ed espressioni, assai felicemente testimoniata in una rapidità, morbidezza, naturalezza ed efficacia pittorica che davvero trovano poche comparazioni in bellezza, perfino nell’arte italiana, sia detto.
Ma è senz’altro pure vero che la grande potenza espressiva (non espressionistica, come sottolinea Alcaide, ma quasi sì, diciamo noi) di un’arte che va obbedendo sempre più, nella maturità e nella vecchiaia, abbandonati gli ossequi dovuti alla committenza, all’impeto di un razionalismo passionale e foriero di verità che con il realismo figurativo l’artista non avrebbe potuto offrire al pubblico, in anticipo di un paio di secoli sul superamento della forma in pittura, in favore dell’informe e del deforme, ecco che il prodigio manifesto dell’arte del Goya si percepisce e si gode a fine percorso, in capolavori su tela come Il Colosso, la celebre visione del gigante di spalle che pare destarsi da un sonno della ragione che incombe sulla terra come devastazione e sterminio.
Mancano alla mostra milanese le celebrità più attese, certo, difficili da muovere dal Prado che le custodisce, le Maja, desnuda e vestida, ma non mancano gli apparati paratestuali, in documenti, citazioni, rappresentazioni di tribunali e inquisizioni, che hanno riguardato anche la biografia del Goya nella realizzazione dei dipinti. E tutto questo lo si trova proprio a fine percorso.
L’iter della mostra si completa, insomma, confondendosi e mischiandosi con il proprio inizio, poiché proprio nella vasta presenza delle lastre incise riportate alla luce dai restauri si coglie il senso profondo dell’opera di Francisco Goya: luce e ombra (la luce della lastra di rame e il buio dell’inchiostro in cui viene immersa) sono parti congruenti e inevitabili, l’una all’altra, della vita dell’umanità che l’artista è chiamato a scomporre e ricomporre. E poi a interpretare scoprendola, non a tradurre copiandola.