Pierre Huyghe, Camata e la prova ontologica dell’esistenza dell’arte

È tardi per dirlo, ma Liminal andrebbe visitata senza sapere a cosa si va incontro. La personale di Pierre Huyghe a Punta della Dogana è visitabile ancora per poco, fino al 24 novembre; chi non l’ha ancora vista probabilmente o non è interessato o sa già di cosa si tratta. Ma se non fosse così, questo è il vostro segnale: interrompete la lettura e precipitatevi a Venezia, ne vale la pena. 

In una mostra in cui si viene accolti da un guscio umano senza volto proiettato su un maxi schermo (Liminal, 2024), si procede nel buio tra acquari con pesci ciechi e rocce fluttuanti (Circadian Dilemma (El Día del Ojo), 2017; Cambrian Explosion 19, 2013) incrociando attori in carne e ossa nascosti da maschere dorate parlanti (Idiom, 2024) e si conclude con un bombardamento di immagini indefinibili generate a raffica su un ledwall abbacinante (UUmwelt – Annlee, 2018-2024), un’opera come Camata (2024) potrebbe passare in secondo piano. 

Camata 2024 Courtesy the artist and Galerie Chantal Crousel Marian Goodman Gallery Hauser Wirth Esther Schipper and TARO NASU © Pierre Huyghe by SIAE 2023

Uno schermo largo una dozzina di metri mostra un insieme di bracci robotici eseguire operazioni attorno a uno scheletro umano nel mezzo di un deserto. Che tutto ciò possa risultare poco appariscente è prova del potere immaginifico di Huyghe, che prima ancora di svelare la sua profondità filosofica e maestria tecnica riesce subito ad accattivare con immagini memorabili e impeccabile gusto scenografico. Non che Camata sia da meno, ma a primo impatto è sicuramente il meno aggressivo dei lavori. Il video è asettico, metodico. Il deserto imperturbabile e il percorso solare vengono riflessi da un eliostato, mentre due bracci prensili posizionano biglie di vetro, manufatti poligonali e schegge di pietra attorno allo scheletro, includendolo in costellazioni ordinate secondo regole a noi incomprensibili. La danza degli arti meccanici è matematica, impeccabile; non un movimento è casuale, eppure è impossibile definirne le ragioni. 

Camata 2024 Courtesy the artist and Galerie Chantal Crousel Marian Goodman Gallery Hauser Wirth Esther Schipper and TARO NASU © Pierre Huyghe by SIAE 2023

Ci si accorge che tutto ciò che si vede è ripreso da due videocamere montate una su un braccio robotico stesso e l’altra su un carrello dolly che orbita la scena e offre vedute d’insieme del rituale. Sì, rituale: perché l’altra cosa che emerge dall’osservazione è che evidentemente le operazioni non sono programmate da qualcuno, non obbediscono a istruzioni umane. Il video che a primo impatto sembrava il più inoffensivo rivela un tipo di inquietudine più profonda, più subdola: le immagini sono chiare, trasparenti – quasi stonano con una mostra in perenne penombra – eppure non si riesce a definire che cosa si sta guardando. 

Pierre Huyghe from left to right Abyssal Plane 2015 Collezione La Gaia BuscaItalia Circadian Dilemma el Dia del Ojo 2017 Private Collection Germany Installation view Pierre Huyghe Liminal 2024 Punta della Dogana Venezia Ph Ola Rindal © Palazzo Grassi Pinault Collection

L’unica speranza resta nell’attesa di uno schermo nero: si raggiungerà una configurazione definitiva di oggetti e ossa, il film finirà e poi ricomincerà, e allora forse si potrà dedurre un senso. Ma il film prosegue con intenzionalità percepibile ma imperscrutabile e, conoscendo l’opera di Huyghe, sorge un dubbio che la guida della mostra conferma una volta per tutte: “Camata, 2024. Robotica alimentata da machine learning, film autogenerato e montato in tempo reale dall’intelligenza artificiale, suono, sensori”. 

Così non resta che scegliere a nostra discrezione un momento per chiudere il colloquio con l’opera, rinunciando a risolvere l’enigma e procedendo oltre. Non si tratta dell’unico video infinito di Huyghe – a due sale di distanza da Camata si trova il sopraccitato Liminal, “simulazione in tempo reale” come spiega la guida – né del primo: nel 2022 Huyghe realizza Variants, opera site specific costituita da un ambiente reale restituito in una simulazione video generata dalla AI (nonché il motivo per cui mi sono recato al parco di arte contemporanea Kistefos a un’ora di auto da Oslo quest’estate, in vista della personale dell’artista a Venezia). Ma l’effetto di Camata è diverso; Huyghe direbbe che si tratta di perplessità: “lo stato in cui si interroga ma non necessariamente si avrà una risposta”1

Pierre Huyghe Variants, 2021 – ongoing. Courtesy of the artist; Kistefos Museum; Hauser and Wirth, London. Photo: Ola Rindal © Pierre Huyghe, by SIAE 2023

Prima ancora che il contenuto, è la forma di Camata a creare un cortocircuito: le riprese reali realizzate e montate con mezzi e linguaggi cinematografici situano il video nel reame del documentario, implicano intenzionalità e sequenzialità e generano l’aspettativa subconscia di una narrazione, che invece l’autogenerazione infinita del video nega di principio. Ed è la scelta specifica di includere il punto di vista – fisicamente, nella forma di due telecamere – all’interno del sistema a compiere il paradosso dell’opera.

Come è sua abitudine dai tempi della celebre opera Untilled (2012) di dOCUMENTA 13, Huyghe imposta variabili e costanti del sistema e poi si fa indietro; ma questa volta l’esperienza che si fa di esso non è né prerogativa del visitatore, come nel caso di installazioni fisiche nello spazio, né dell’artista, come in video più tradizionali o in altre simulazioni di intelligenza artificiale in cui tuttavia il punto di vista offerto è arbitrario. Camata è sigillato ermeticamente dall’interno e permette di essere solamente spettatori passivi di un processo in cui persino il video finale è prodotto da e per l’entità inumana che opera il sistema stesso. La sensazione di impotenza che ne scaturisce è tanto unica quanto spiazzante: Huyghe afferma il medium artistico del video, con la sua limitazione inerente di obbligare a una visione passiva, ma ne nega la prerogativa di avere una direzione che procede da un inizio a una fine, producendo senso nel percorso. Un limbo infinito, una promessa di senso costantemente garantita ma mai rispettata, che in ambizione e potenzialità va ben oltre la sfera consolidata della pratica di Huyghe. 

Camata 2024 Courtesy the artist and Galerie Chantal Crousel Marian Goodman Gallery Hauser Wirth Esther Schipper and TARO NASU © Pierre Huyghe by SIAE 2023

Paradossalmente, lo spunto per riuscire a formulare ciò che Camata fa solo intuire è giunto di nuovo dalla guida della mostra, ma nella descrizione di un’altra opera, il video De-extinction (2014). In esso una pietra d’ambra nella quale sono cristallizzati degli insetti vecchi un milione di anni viene ripresa con lenti macroscopiche, che fanno sembrare il microcosmo un mondo alieno abitato da mostri. Il libretto spiega: “l’ambra materializza lo spazio e il tempo che ci separano dai due antichi esemplari”.

In dieci anni Huyghe è passato dal mostrare la materializzazione del tempo a opera della natura al materializzare lui stesso l’indicibile esperienza che si fa di un’opera d’arte. Ecco cosa fa davvero Camata, ecco perché turba: esplicita il processo che avviene al cospetto di un oggetto d’arte, un’entità esterna a noi, che osserviamo non per quello che è ma per la nube di significati indefiniti che concentra in un’unità definita di materia.

<br>Pierre Huyghe<br><em>De Extinction<em> 2014<br>Pinault Collection<br>Courtesy of the artist Anna Lena Films Paris<br>© Pierre Huyghe by SIAE 2023

La sostanza dell’oggetto non cambia, ma ogni attimo che si passa a guardarlo lo si vede in luce diversa, si capisce sempre di più e ci si avvicina a quello che si intuisce essere il suo significato, il suo segreto, pur non raggiungendolo mai, come un grafico asintotico. Questo processo subconscio viene portato allo scoperto e messo in pratica da Camata: non solo cambia il modo in cui lo si vede nel corso del tempo, cambia la sua effettiva apparenza, pur rimanendo invariate le costanti di base. Premia un’osservazione paziente, si potrebbe guardare all’infinito, continuando a imparare sempre di più, ma senza mai riuscire a varcare quel confine oltre al quale si trova la soluzione. Da tale tensione viene l’aura dell’opera d’arte in quanto tale: la promessa di un significato, non il significato stesso, e la possibilità di vagare in un territorio liminale immaginario alla ricerca di esso. L’opera è il centro gravitazionale di tali piani di realtà possibili, così come Camata è l’insieme di tutte le sue manifestazioni visive passate e future.

Camata 2024 Courtesy the artist and Galerie Chantal Crousel Marian Goodman Gallery Hauser Wirth Esther Schipper and TARO NASU © Pierre Huyghe by SIAE 2023

Da tempo l’arte si è ripiegata su se stessa, scandagliando la sua stessa natura nei modi più disparati, ma niente prima d’ora era riuscito a esorcizzare questo incantesimo in modo ineccepibile come Camata. Il risultato dà le vertigini: “tutti i presenti esistono simultaneamente in una cosa e la inondano” spiega Huyghe, ma “l’interiorizzazione del mondo attraverso i nostri sensi è limitata”2, ed è proprio tale limite che viene reso percepibile. L’uomo, piccolo e finito, al cospetto di un infinito di sua creazione.

E, se si supera la nausea iniziale, ci si rende conto che Camata è una conferma dell’esistenza reale della potenzialità dell’arte in cui si è sempre creduto per istinto e per fiducia. Una sorta di versione artistica della prova ontologica dell’esistenza di Dio di Gödel: la prova che l’uomo, attraverso la realizzazione di un catalizzatore reale, è in grado di accedere a un territorio ultraterreno di pura potenzialità, che per la prima volta viene realizzato fisicamente in tutta la sua inesplicabilità. Se tutto ciò non bastasse, oltre all’esperienza che si ha dell’esplicitazione dell’esperienza dell’arte, si ha un ulteriore livello di significato all’interno del sistema stesso di Camata, proprio nel suo centro.

Camata 2024 Courtesy the artist and Galerie Chantal Crousel Marian Goodman Gallery Hauser Wirth Esther Schipper and TARO NASU © Pierre Huyghe by SIAE 2023

I bracci robotici, neri e alieni come il monolite di 2001 Odissea nello Spazio, circondano e studiano ciò che un tempo era una persona vera. Huyghe trovò lo scheletro nel deserto di Atacama nel 2015 (realizzandone la fotografia Cerro Indio Muerto). Nove anni dopo il corpo era ancora lì, e così si è delineata l’idea di “una mente senza corpo che prende spunto da un corpo senza vita”3. La metafora artistica non si spande solo all’esterno dell’opera, ma anche al suo interno: questa volta l’infinito emana dal cadavere di quello che era un giovane uomo, ormai tutt’uno col deserto che lo ha ucciso sigillando per sempre l’accesso al mistero della sua vita.

L’entità robotica cerca disperatamente di capire, osservando l’oggetto-scheletro da ogni punto di vista (come un umano di fronte a un’opera d’arte), relazionandolo a modelli geometrici, riflettendovi il sole abbagliante del Cile, ma senza successo. In una conferma dell’infinito gioco delle parti nel dialogo tra uomo e Camata, descrivendo l’esperienza dello spettatore di fronte all’opera Huyghe descrive alla perfezione l’opera stessa: “testimonia qualcosa che non si è in grado di comprendere ma, in qualche modo, intuisce che c’è quel qualcosa”4.

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