“Avetrana – Qui non è Hollywood”: la serie bloccata dal tribunale tra diritto di cronaca e tutela della comunità

Da anni non si respirava un’aria così asfittica attorno a una vicenda così controversa. Stiamo parlando della serie Avetrana – Qui non è Hollywood, che è stata al centro di numerose polemiche in queste settimane. La serie Disney+, che avrebbe dovuto debuttare sulla piattaforma streaming il 25 ottobre, ha suscitato un acceso dibattito, con il sindaco di Avetrana, Antonio Iazzi, che ha manifestato apprensione e preoccupazione per la potenziale dannosità della serie per l’immagine della città e della comunità, chiedendone la sospensione e un cambio di titolo, ricorso che è culminato con un provvedimento d’urgenza che ne ha sospeso la distribuzione.

Ma facciamo un passo indietro. Avetrana – Qui non è Hollywood è una serie in quattro puntate, presentata in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, firmata dal regista pugliese Pippo Mezzapesa. La serie si addentra tra le ombre di uno dei casi di cronaca nera più drammatici e controversi dell’Italia contemporanea: l’omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana nell’agosto 2010. Per quel delitto sono state condannate all’ergastolo la cugina e la zia della vittima, Sabrina Misseri e Cosima Serrano, mentre lo zio Michele Misseri è stato invece condannato a 8 anni per concorso in soppressione di cadavere. Una storia che ha avvolto l’intera nazione, ma soprattutto Avetrana, in un ciclone mediatico senza precedenti. 

Divisa in quattro episodi, ognuno di circa un’ora, la serie sceglie di raccontare la vicenda attraverso le voci e gli sguardi di Sarah, Sabrina, Michele e Cosima. Ogni episodio disegna il mondo interiore di ognuno di loro, intrecciando frammenti di verità e menzogne sussurrate, silenzi e confessioni, come a comporre un mosaico imperfetto che resta incompiuto. Avetrana, una cittadina lambita dal sole e dal mare, sorge come uno scenario sospeso tra la costa e il profondo sud, un luogo dove il tempo sembra fermarsi, ma che in quell’estate del 2010 si trova catapultato sotto l’implacabile occhio dei media. È il 26 agosto: Sarah, quindicenne, scompare senza lasciare traccia, e il suo volto sorridente, pronto per una giornata di mare, si trasforma presto in un’immagine diffusa ovunque, un mistero insostenibile per una comunità inerme.

Ebbene, il lancio della serie si è trasformato in un vero e proprio caso di cronaca giudiziaria. Il sindaco di Avetrana ha presentato un ricorso urgente per sospendere la trasmissione e chiedere di visionare preventivamente la serie. Diversi giorni fa il sindaco di Avetrana ha pubblicato questa nota: “La stessa comunità ha da sempre cercato di allontanare da sé i tanti pregiudizi dettati dall’omicidio, dal momento che la tragedia destò sgomento nella collettività, interessata da una imponente risonanza mediatica, che stimolò l’ente a costituirsi parte civile nel processo penale a carico di Michele Misseri, fino alla condanna degli imputati al risarcimento del danno all’immagine in favore del Comune di Avetrana per una serie di riflessi negativi sulla collettività. La messa in onda del prodotto cinematografico rischia invece di determinare un ulteriore attentato ai diritti della personalità dell’ente comunale, accentuando il pregiudizio che il titolo già lascia presagire nel catapultare l’attenzione dell’utente sul territorio più che sul caso di cronaca”.

Il Comune, per proteggere l’immagine locale, ha così presentato un ricorso cautelare d’urgenza al Tribunale di Taranto. Il tribunale ha accolto il ricorso, rinviando la questione a novembre, mentre le case di produzione dichiarano che si difenderanno nelle sedi appropriate. Questa decisione, seppur provvisoria, ci riporta in quel crinale tra il diritto alla libera espressione artistica e la tutela del rispetto collettivo e individuale, che in casi come questo si intrecciano, sollevando interrogativi etici. Da un lato, c’è il desiderio di raccontare una storia che ha scosso l’opinione pubblica, dall’altro, la preoccupazione di una comunità che teme il peso di un giudizio inesorabile sugli eventi del passato.

Questa vicenda si innesta in un filone di crescente dibattito sulla rappresentazione televisiva dei crimini reali. In Italia come all’estero, numerosi programmi e serie, spesso in chiave documentaristica o di fiction, hanno suscitato domande sul confine tra cronaca e spettacolarizzazione, ma anche tra ricostruzione degli eventi e taglio innocentista, come secondo alcuni è accaduto per la docuserie Netflix che ricostruisce il caso di Yara Gambirasio, o parallelamente, ancora più di recente, il caso emblematico della serie tv dedicata ai fratelli Lyle ed Erik Menendez, Monsters, serie true crime che esplora uno dei casi di omicidio più famigerati della California. 

Il caso di Avetrana – Qui non è Hollywood porta alla ribalta un tema ricorrente: come bilanciare il diritto a raccontare storie di pubblico interesse senza cadere nel voyeurismo che riduce persone e comunità a meri contorni del crimine, e vissuti dolorosi a oggetti di consumo per tutti. Forse è questo che il sindaco e la sua comunità avvertono come un vulnus: il rischio che il passato diventi, nuovamente, motivo di stigma, come se Avetrana fosse solo il teatro di un crimine, un simbolo di quel che di oscuro si cela nel cuore della provincia italiana. 

Per ora il destino della serie è ancora incerto. Tuttavia, questo episodio aggiunge un tassello importante alla discussione più ampia sulla responsabilità narrativa, soprattutto quando le storie riguardano vicende reali, le cui cicatrici rimangono indelebili nella memoria collettiva. In Italia, questo tema è ancora più rilevante in un’epoca in cui i crimini di cronaca nera sono oggetto di un’attenzione mediatica quasi ossessiva, trasformandosi spesso in fenomeni di consumo. D’altra parte, la cultura del divieto rischia di innescare meccanismi controproducenti, come la curiosità morbosa o la ricerca di informazioni non ufficiali, spesso distorte e manipolate. Censurare non protegge, ma isola. La vera soluzione risiede nell’impegno per una narrazione etica, che sappia valorizzare il diritto di raccontare senza pregiudicare tutto il resto. 

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