A Bologna c’è una mostra che parla di una favola antica ma senza l’happy ending contemporaneo che avremo voluto. O meglio, è arrivato giusto in queste ore, non a Bologna ma a Bergamo, ma nella forma di un plot-twist che sarà interessante monitorare
Vediamo insieme.
C’è una nuova mostra di arte antica che ha aperto da pochi giorni, dura fino al 16 febbraio e, se siete di passaggio sotto i portici di Bologna, merita la visita. L’indirizzo è quello della Pinacoteca Nazionale, una chicca di museo (poi diremo due cose anche sulla sua collezione permanente) che riconoscerete da lontano perché nella piazzetta antistante è tutto un viavai dei ragazzi del Dams.
La favola di Atalanta. Guido Reni e i poeti, a cura di Giulia Iseppi, Raffaella Morselli e Maria Luisa Pacelli, allestita negli spazi ipogei del Salone degli Incamminati ha attirato la nostra attenzione per una serie di motivi. In pieno Avvento, invasi come siamo di Madonne e Natività ovunque, ecco una mostra che approfondisce un mito antico che forse vale la pena rispolverare: ottimo.
Atalanta, runner & cacciatrice: lo ricordate il mito? La favola racconta che Atalanta, abbandonata dal padre che tanto avrebbe voluto un maschio, viene accudita da un’orsa e poi da dei cacciatori che la addestrano nella loro arte. La gagliarda fanciulla diventa subito una brava cacciatrice ed è l’unica donna a partecipare alla spedizione degli Argonauti. Le sue imprese inorgogliscono il padre che a questo punto la riconosce e vuole trovarle marito: la donna è contraria perché un oracolo le ha predetto che, una volta maritata, avrebbe perso la sua abilità nella caccia. Atalanta lancia allora una sfida: avrebbe impalmato solo il pretendente che sarebbe riuscito a batterla in una gara di corsa. Ci provano in tanti e tutti falliscono tranne Ippomene che, di lei innamoratissimo, con uno stratagemma (fa cadere delle mele d’oro lungo il cammino) distrae Atalanta e vince la gara.
Ebbene, il grande bolognese Guido Reni (1575 – 1642) riesce a creare un’indimenticabile istantanea di questo momento (la distrazione di Atalanta) e in mostra a Bologna sono esposte, una accanto all’altra, due monumentali e pressoché identiche versioni di Atalanta e Ippomene: a destra, quella in prestito dal museo Capodimonte di Napoli, a sinistra quella dal Prado di Madrid (che proprio di recente a Reni ha dedicato una importante rassegna).
La scelta felicissima dell’allestimento (luci soffuse, pareti ottanio) rende se possibile ancor più elegante la pittura di Reni in questi dipinti gemelli. Basterebbe questo accostamento, che troviamo nella grande sala finale, a giustificare l’esposizione, ma le curatrici hanno deciso di fare ciò che andrebbe fatto per ogni mostra di quadri antichi: non presentarli in tutta la loro (scontata) bellezza, ma indagarci su, ché la storia dell’arte è piena di tasselli da riempire ancora.
E quindi: perché Atalanta? Perché due copie?
E così la “favola” di questa mostra diventa ancora più interessante. Le studiose hanno infatti scoperto che il mito di Atalanta era tornato di moda nell’iconografia della storia dell’arte del tempo e anche nella letteratura. Anzi, è sul legame tra la poesia, i circoli letterati e gli artisti che le curatrici hanno indagato, presentando in mostra una serie di lavori – tra cui la Giuditta con la testa di Oloferne di Lavinia Fontana e la Iole di Ludovico Caracci – che dimostrano quanto la scena artistica bolognese tra Cinque e Seicento fosse particolarmente vivace. Guido Reni ne è la punta di diamante e proprio il legame con il poeta Giovan Battista Marino lo spinge a cimentarsi sul mito di Atalanta, rispolverato in quegli anni in letteratura.
In particolare, c’è un fil rouge che lega Bologna e Roma: tanti dei poeti e artisti del tempo si muovono tra le due città, sono amici, si stimano e si frequentano. All’interno di questi circoli nasce l’idea di “rileggere”, in pittura e in poesia, i versi che Ovidio aveva dedicato nelle Metamorfosi ad Atalanta: anzi, secondo l’ipotesi delle studiose, a un certo punto l’immagine di Atalanta diventa una sorta di passe-partout di un’Accademia speciale che si crea a Roma tra il 1623 e il 1627 intorno al cardinale Maurizio di Savoia. Un’Accademia di cui si sa ancora pochissimo. Oggi sarebbe un club, un circolino: di certo i “soci” sono i super nobili del tempo, con ampi palazzi dove poter contenere lavori come le Atalante di Reni. L’ipotesi delle curatrici è infatti che Guido Reni ne abbia dipinto diverse coppie (due sole per ora giunte fino a noi, ma chissà se ne esistono altre in collezioni private…) come attestato di appartenenza all’Accademia.
Il merito di questa mostra sta nella sua capacità di raccontare una storia nuova, figlia di un’indagine serrata su dipinti e documenti. Tra le altre chicche esposte per dimostrare l’altissimo livello della pittura bolognese del Seicento, anche La strage degli Innocenti, capolavoro di Guido Reni conservato in Pinacoteca, davanti al quale è il caso di soffermarsi più di pochi minuti.
Che cosa c’è d’altro e di bello da vedere nel museo bolognese? Fondato nel Settecento su quel che era un convento gesuita, ha come piatto forte le opere cinquecentesche (i Carracci, Domenichino) e seicentesche (Reni, ovviamente, e Guercino). L’ultimo piano, dedicato al gabinetto dei disegni e delle stampe, regala una sorpresa: i disegni e fogli firmati dai grandi del Novecento come Pablo Picasso, Paul Klee, Umberto Boccioni e Giorgio Morandi.
Tutto ‘favoloso’ in Pinacoteca, se non fosse per l’amaro happy ending riservato dal Mic alla direttrice Maria Luisa Pacelli che ha diretto la Pinacoteca Nazionale fino allo scorso 31 ottobre quando – con telegrafica comunicazione – ha saputo dal ministero della Cultura che dopo 4 anni il suo incarico non sarebbe stato rinnovato nonostante l’ottimo lavoro svolto (e se i numeri hanno valore, aver portato la Pinacoteca da 3mila a 105mila visitatori annui deve pur significare qualcosa).
All’inaugurazione della mostra su Guido Reni, venerdì 16 novembre, eravamo presenti e la delusione e il rammarico sul volto di Pacelli erano palpabile: un “cavillo burocratico” ha reso la sua direzione non più rinnovabile per altri 4 anni come ci si aspettava (tutto dipende dalla nuova ri-denominazione del museo da parte del Mic) e le note vicende romane (il caso Boccia-Sangiuliano, le dimissioni di Francesco Spano, già Capo di Gabinetto, l’inchiesta di Report sul neoministro Alessandro Giuli) hanno aggiunto confusione e fatto scivolar via la pratica senza poterla aggiustare. Il ministro Giuli, in un messaggio pubblico fatto pervenire alla Pinacoteca, si è detto riconoscente e grato a Pacelli per il lavoro svolto e – ci ha confermato una fonte – in privato dispiaciuto non poco per il mancato rinnovo.
Il risultato è che adesso Bologna si trova con un direttore di Pinacoteca a interim che è Costantino D’Orazio il quale ha promesso di traghettare al meglio il museo così ben gestito da Pacelli nelle mani del prossimo direttore (si dovrà attendere nomina dal MIc): nel contempo D’Orazio è impegnato alla direzione della Galleria Nazionale dell’Umbria, a Perugia, che non è proprio vicina a Bologna…
E Pacelli?
Fuoriclasse della gestione museale, non è rimasta a lungo senza direzione: nella mattinata del 18 novembre, il cda straordinario dell’Accademia Carrara di Bergamo ha nominato proprio l’ex direttrice della Pinacoteca Nazionale di Bologna direttrice del museo della città orobica dove la volitiva Martina Bagnoli, rimasta in carica solo otto mesi, aveva rassegnato (con polemica mezzo stampa locale) le sue dimissioni. Sarà interessante osservare nei prossimi mesi il lavoro e i progetti di Pacelli alla Carrara, museo-simbolo della città ex capitale italiana della Cultura e istituzione che nell’ultimo periodo ha avuto più di un affanno nella sua gestione e comunicazione.