La performance come dimensione esperienziale fluida: Marina Abramovič a Bergamo

Marina Abramovič. Between breath and fire è la mostra inaugurata presso lo spazio Gres Art 671 di Bergamo per rendere omaggio a una delle artiste che ha segnato profondamente la storia della performing art contemporanea. 

Questa mostra è unica perché integra non solo il mio lavoro performativo, ma anche le mie ultime ricerche sull’uso di nuovi materiali e formati diversi. (Marina Abramovič)

Il progetto si presenta come una retrospettiva atipica, che attinge all’opera cinquantennale per introdurre l’inedita installazione video Seven Deaths, simbolica chiusura di un percorso visivo e concettuale a testimonianza della carriera dell’artista. I temi chiave che hanno scandito la vita di Marina Abramovič diventano i cluster che indicano il percorso da seguire: il respiro, il corpo, la relazione con l’altro e la morte.

30 sono le opere che, tra passato e presente, rivendicano ognuna una presenza significativa nello spazio espositivo: il rapporto tra installazioni e contesto permette a chi le fruisce di acquisire un quadro complessivo di ció che anticipa o segue il lavoro che sta osservando, attivando connessioni impreviste e deduzioni brillanti. L’allestimento è pensato per evidenziare la componente audio-visiva delle performance che vengono proiettate in contemporanea, creando una cacofonia immersiva e spontanea: la voce e il corpo sono da sempre al centro del codice espressivo dell’Abramovič e in questo caso viene chiesto al visitatore di ampliare la sua percezione sensoriale a favore di una fruizione wagneriana

Photo Giulia Giaume

La potenza evocativa e trasformativa dell’arte é una componente che permette di attivare luoghi che non hanno o hanno perso un’identità precisa, come nel caso dello spazio recuperato da Gres Art 671: con 30.000 mq, suddivisi in 4 aree annesse a 600 mq di giardino interno, l’edificio sorge in un’area postindustriale dopo essere sopravvissuto alla demolizione che ha fatto spazio a nuovi complessi urbani. Inaugurato nel 2023 in occasione dell’anno di Bergamo Brescia Capitale della Cultura, Gres Art è parte del complesso Gres Hub, un quartiere in via di sviluppo che punta a diventare luogo di riferimento per attività di ricerca e di accoglienza oltre che ponte tra centro e periferia urbana.  

“Se il punto di partenza di gres art 671 era un ex complesso industriale, il suo punto di arrivo è un luogo pubblico, di relazione sociale e culturale, la cui identità viene man mano costruita da chi lo abita e dalle iniziative culturali che qui hanno vita”.

La carriera di Marina Abramovič è profondamente influenzata dal suo vissuto, dal quale si possono estrapolare valori universali e condivisibili: il rapporto tra la vita e la morte si esprime attraverso una corporalità portata all’estremo della resistenza umana con azioni e pratiche che ridefiniscono e sfidano i limiti fisici e psicologici, con risultati sconvolgenti e inaspettati. 

Photo Giulia Giaume

Il dialogo costante tra interno ed esterno apre due piani di lettura, quello che vede coinvolti il corpo e la psiche della performer, in una dimensione intima e circoscritta all’hic et nunc, e quello che contrappone l’intenzionalità dell’artista alla libertà del pubblico che assiste. Lo spettatore ha l’accesso a una dimensione esperienziale fluida che si definisce con il definirsi delle sensazioni dello stesso: la performance per definizione prevede un campo aperto d’azione, che elimina il divario artista/pubblico accettandone le conseguenze, come in un’esibizione senza palcoscenico, nella speranza di stimolare nuove risposte e nuove riflessioni. A fronte di questo linguaggio artistico, anche un’esposizione di arte performativa sceglie display e strumenti coerenti con la tipologia di rappresentazione, per coinvolgere il pubblico al di là della contemporaneità delle azioni, abbattendo la barriera spazio-tempo reiterando l’opera nel presente e nel futuro.

Tra le opere proiettate Mambo a Marienbad (2001) si ispira a una celebre pellicola diretta da Alain Resnais Last year at Marienbad e vede l’artista danzare sulle note di Mambo Italiano avvolta da un attraente abito rosso fuoco in una stanza del manicomio di Volterra: come in tutte le sue esibizioni, anche qui Marina Abramovič impone una forza opposta allo svolgersi razionale dell’azione indossando scarpe magnetiche che rendono i movimenti pesanti e rallentati, in un accostamento paradossale tra il ritmo irrefrenabile del mambo e la scoordinazione dei passi. Come attualizzare la performance se non aprendo lo spazio al pubblico, che può esibirsi davanti allo schermo come in uno spettacolo asincrono a favore della libera espressione e interpretazione del singolo.

Dalla serie Spirit House anche Insomnia (1997) coinvolge il corpo dell’artista stessa in un sensuale tango che, al posto di essere ballato in coppia come da tradizione, è eseguito in solitaria: la figura si muove nello spazio in penombra, senza partner, eliminando il tratto esibizionistico tipico di altre performance. L’approccio frontale di Mambo a Marienbad diventa in questo caso un invito a una manifestazione anonima della partecipazione del visitatore, che può danzare con l’artista vedendo proiettata la sua ombra sullo schermo. 

Photo Giulia Giaume

Gli elementi che governano la suddivisione tematica e spaziale dell’esibizione accendono i riflettori sulle singole componenti delle performance, costruendo un assetto logico-esperienziale che permette di comprendere e sperimentare un percorso estremamente intimo e apparentemente auto-referenziale. La persistenza con cui l’Abramovič mette a servizio dell’arte le sue membra e la psiche ambisce al fine ultimo di estetizzare il dolore e giungere a una lettura cruda e disincantata della vita umana: nelle opere storicizzate esposte i singoli contenuti diventano strumento di narrazione per condurre in un climax ascendente all’ultima grande produzione cinematografica Seven Deaths.

Il respiro, primo cluster tematico, è protagonista delle opere Dozing Consciousness (1997), Freeing the Memory (1975) e Freeing the Voice (1975) nelle quali l’atto, espressione primaria della vita, assume una connotazione psicologica attraverso le sue variazioni e esternazioni in circostanze differenti. Le forme che assume la respirazione coprono una vasta gamma di intensitá, dal sospiro controllato che esala l’artista completamente ricoperta di cristalli di quarzo in Dozing Consciousness, all’esalazione vocale durante la pronuncia di tutte le parole che riaffiorano alla mente in Freeing the Memory, fino all’estenuante urlo continuo come forza primordiale in Freeing the Voice.

Il corpo è il fil rouge che accomuna le performance Lips of Thomas (1975/1993), Art Must Be Beautiful, The Artist Must Be Beautiful (1975) e Artist Portrait with a Candle (C), (2013); in queste opere la fisicità è il medium utilizzato per «raggiungere uno stato di coscienza superiore» sfidando la vulnerabilità delle membra umane e il sottile limite tra pubblico partecipante e pubblico agente. Il rapporto con l’Altro è celebrato dai due master piece Imponderabilia (1977/2017) e Rest Energy (1980), nelle quali la coppia Ulay/Abramovič condividono la travolgente chimica fisica e intellettuale che si sprigiona in due corpi comunicanti e interdipendenti. In The House with the Ocean View Model (2002) si assiste alla riproduzione video della performance originale eseguita presso la Sean Kelly Gallery di New York che vede l’artista digiunare per 12 giorni in un percorso di purificazione, all’interno di 3 stanze ma isolate costruite all’interno dello spazio espositivo. 

Introduce all’ultima sezione della mostra l’installazione sonora The Tree (1972) allestita nel giardino interno dello spazio, un eden fiorito dai resti industriali e diventato parte integrante di essi. L’opera traghetta gli spettatori verso l’aldilà, trasmettendo tramite alcuni altoparlanti il canto degli uccelli, antico simbolo del viaggio dell’anima verso la morte; un momento di estasi e riflessione che nasce dalla natura, modello magistrale della dualità vita-morte.

Photo Giulia Giaume

A conclusione di un viaggio colmo di vitalità e passione si giunge all’ultima sezione, quella dedicata alla riflessione sulla morte; nonostante l’Abramovič abbia da sempre ricercato l’estremo limite umano per poi oltrepassarlo, la morte è un concetto che tratta con particolare sensibilità e maturità. Nella recente produzione cinematografica Seven Deaths, la morte è vita e assenza di vita allo stesso tempo: un ossimoro che trova radice nelle eroine melodrammatiche, schiave di passioni folgoranti e di morti drammatiche. 

Seven Deaths è un’opera che nasce da un preciso momento della vita dell’artista:“Non capivo le parole – era in italiano – e ricordo di essermi alzata in piedi, sentendo una scarica elettrica lungo tutto il corpo e un’incredibile emozione attraversarmi. Iniziai a piangere senza riuscire a controllarmi; fu una tale emozione da non poterlo mai dimenticare”

L’incontro virtuale tra la voce della cantante lirica Maria Callas sconvolge inaspettatamente l’adolescenza dell’Abramovič, attivando una serie di parallelismi che porta la performer a creare un progetto interamente dedicato alla morte concepita come riflesso dell’amore impossibile. Sette morti come sette sono le liriche e le eroine interpretate dalla Divina nella sua carriera: “Era così forte sul palco, ma così infelice nella vita. E morì davvero per amore. Una volta, nel corso della mia vita, anch’io fui così innamorata da non riuscire a mangiare, a dormire, a pensare, ma poi, il mio lavoro mi salvò”

È proprio da questo scarto tra la cantante e l’artista che quest’ultima sceglie di incarnare davanti all’obbiettivo quelle vittime inconsapevoli, vivendo sul suo corpo sette epiloghi, sette strazianti capitolazioni: la rivisitazione in chiave contemporanea inscena morti contemporanee, come una Carmen uccisa da un torero interpretato da William Defoe, una Madama Butterfly avvelenata da gas nocivi o ancora una Tosca suicida da un grattacielo newyorchese. 

Between breath and fire educa chi la visita a una nuova sensibilità, nell’approccio all’opera di Marina Abramovič come alla sua piú intima esperienza. L’artista stessa coglie il senso primo della sua arte e della relativa comprensione di quest’ultima con le parole esposte all’inizio del percorso espositivo: “Penso che prima di capire il concetto delle mie opere, si abbia una reazione emotiva ad esse. Per me è questa la giusta risposta all’arte. Deve emozionarti in un certo modo”.

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